Alèssio I (imperatore d’Oriente) (Tante di queste informazioni sono state trovate su Panorama)

Comneno, imperatore d'Oriente (? 1048-Costantinopoli 1118). Esponente dell'aristocrazia militare in rivolta contro l'aristocrazia burocratica dominante nella capitale, fu acclamato imperatore in Tracia e incoronato a Costantinopoli (1081), che conquistò senza incontrare resistenza da parte dell'avversario Niceforo III Botoniate. Buon soldato, amministratore e soprattutto diplomatico, attese alla riorganizzazione e alla pacificazione interna dell'impero e condusse con successo alcune importanti azioni militari: contro Roberto il Guiscardo in Albania e in Macedonia (1081-85), contro i Peceneghi in Tracia (1087-91) e, a più riprese, contro i Turchi in Asia. Dal 1096 fu impegnato nelle vicende della I Crociata, svoltasi complessivamente in contrasto con le sue aspirazioni di ricuperare effettivamente all'impero i territori liberati dai crociati in Asia. Con la concessione di ampi privilegi (1082) assicurò la fortuna commerciale e politica di Venezia in Oriente. Fonte principale per la sua storia è l'Alessiade, scritta dalla figlia Anna Comnena. ? A. fu anche autore di scritti teologici, nel metodo dialettico positivo affrancato dalla cavillosa tradizione orientale, che rispecchiano la sua aspirazione alla chiarezza, corrispettiva del suo desiderio di pace. Oltre a una Preghiera in 100 dodecasillabi giambici e ad alcuni Epitaffi in versi, scrisse un poemetto, Le Muse, testamento politico e breviario di saggezza pratica, affettuosamente dedicato al figlio Giovanni, destinato a succedergli.

Antiòchia (città dell’Asia minore)

(greco Antiócheia), denominazione di numerose città dell'antichità classica, in gran parte situate in Asia Minore e fondate in onore di vari re seleucidi di nome Antioco (sec. III-I a. C.). Tra le altre: Antiochia di Caria e Antiochia ad Meandrum, nella Caria; Antiochia al Crago, nella Cilicia Tracheia; Antiochia nella Margiana (attuale Turkmenistan), nei pressi di Merv (Mary); Antiochia sull'Oronte (o di Siria) e Antiochia di Pisidia.

cavalière

Lessico
(ant. cavalièro e cavallière), sm. [sec. XII; dal provenz. cavalier, che risale al latino tardo caballarius, palafreniere, da caballus, cavallo].
1) Chi sta, viaggia o va abitualmente a cavallo: il cavaliere arrivò al galoppo; essere un buon cavaliere, essere esperto e abile nel cavalcare. In partic., chi partecipa a gare di equitazione.
2) Ant., guerriero a cavallo: “si vedea davanti / passar distinti i cavalieri e i fanti” (Tasso). Più di recente, soldato dell'arma di cavalleria, in particolare dei reggimenti Piemonte e Savoia.
3) Presso i Romani antichi, appartenente all'ordine equestre.
4) Nel Medioevo, chi apparteneva alla cavalleria: fare, creare cavalieri; “oh gran bontà de' cavalieri antiqui!” (Ariosto); in particolare: cavalieri erranti o di ventura, nome dato nei poemi e nei romanzi cavallereschi ai cavalieri che giravano il mondo alla ricerca di nobili imprese da compiere, assumendosi la difesa dei deboli e degli oppressi. In particolare, cavalieri della Tavola Rotonda, guerrieri del leggendario re Artù (tra cui i famosi: Lancillotto, Ivano, Parsifal, Galaad), eletti dalla letteratura europea a modello di perfetta cavalleria. La Tavola Rotonda, intorno a cui si disponevano i cavalieri chiamati a corte da Artù, non prevedendo posti d'onore, era il simbolo dell'assoluta eguaglianza dei cavalieri. Attorno alle loro imprese fiorirono le leggende del ciclo brettone che trovarono in Chrétien de Troyes il cantore più organico e il poeta di un mondo cavalleresco che celebra la vita avventurosa ed eroica nobilitata dal sacrificio, dall'amore perfetto fino, a volte, alla sublimazione nell'ideale mistico. Con sensi estensivi: A) guerriero, eroe, campione, difensore: “vietar l'acquisto / di Palestina ai cavalier di Cristo” (Tasso); un cavaliere della giustizia sociale. B) Nobile, aristocratico (opposto a plebeo). In senso fig., persona di animo nobile e generoso; chi si comporta con signorile educazione e, in particolare, tratta le donne con cortesia e galanteria; gentiluomo: un inchino da vero cavaliere; è il tipo di cavaliere che le signore apprezzano. C) L'uomo che accompagna una dama e balla con lei durante manifestazioni mondane; più in genere, chi offre gentilmente il proprio aiuto e la propria compagnia a una signora o signorina: se permette, le farò io da cavaliere. In particolare: cavaliere servente, accompagnatore ufficiale e abituale di una dama dedito interamente al suo servizio secondo il costume settecentesco; cicisbeo; fig., corteggiatore assiduo, damerino.
5) Titolo nobiliare d'origine feudale.
6) Appartenente a uno degli ordini cavallereschi costituiti nel passato o conferiti più recentemente dal pubblico potere per meriti particolari; il grado onorifico spettante a ciascun membro.
7) Ant., elevazione di terra o di fabbrica, a figura circolare oppure poligonale, che sovrasta tutte le altre parti di una fortezza. Per estensione: essere, stare a cavaliere di un luogo, in posizione elevata e dominante; fig.: a cavaliere di due secoli, fra l'uno e l'altro.
8) Ant., il cavallo degli scacchi: “gli leva con un alfiere il cavaliere” (Boccaccio).
9) Regionale, baco da seta.
10) Cavaliere d'oro, nome dato nel sec. XV alle monete d'oro col tipo del sovrano a cavallo. Tra le monete con tale denominazione le più note furono quelle di Giovanni II di Castiglia (1405-1454), del valore di 20 doblas, e i filippi d'oro di Filippo il Buono duca di Borgogna (1439).
11) In anatomia, cavaliere dell'aorta, biforcazione con cui termina l'aorta addominale e da cui si dipartono le due arterie iliache comuni.
Storia
Nell'antica Roma i cavalieri (ordo equester) si procuravano a proprie spese il cavallo (equites equo privato), affiancati per esigenze militari dai censori ai cavalieri iscritti nelle 18 centurie degli equites equo publico, forse fin dal sec. III a. C. Avendo la legge Claudia (218 a. C.) vietato ai senatori e ai loro figli l'esercizio di attività commerciali, queste vennero monopolizzate dai cavalieri, che assunsero altresì gli appalti di lavori pubblici e di riscossione delle imposte, spesso formando società di pubblicani. Distinti dai senatori e dagli altri cittadini, anche per segni onorifici esteriori, dopo G. Gracco (123-122 a. C.), essi ebbero contrasti e rivalità con il ceto senatorio, soprattutto per quanto concerneva la composizione delle quaestiones perpetuae. Augusto creò una categoria di equites equo publico divisa in 6 turmae, ciascuna comandata da un sevir. Dai predetti equites venne tratta la burocrazia imperiale non ereditaria, la quale godeva, tuttavia, come i senatori, di privilegi in campo pubblico e privato. Gli equites potevano o venire promossi senatorii, oppure ottenerne i distintivi onorifici. Durante la monarchia assoluta rimase in vita la distinzione fra humiliores e honestiores e, fra questi ultimi, in membri dell'ordo equester e dell'ordo senatorius. ? Nel Medioevo il cavaliere era il milite proveniente dal ramo cadetto della bassa nobiltà che, dalla seconda metà del sec. XI, viveva al di fuori del feudo in cerca di una posizione indipendente. A seconda delle loro scelte i cavalieri si dividevano in: cavalieri di croce, milizia ecclesiastica sottoposta a regole religiose come i cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme (che dal 1530 si chiamarono cavalieri di Malta), i Templari, i cavalieri di Santa Maria di Gerusalemme, i cavalieri di Calatrava, ecc.; cavalieri di collana, insigniti di un ordine equestre per aver onorato la milizia a cui appartenevano: tra questi ordini si ricordano quelli della Giarrettiera, dell'Annunziata, del Toson d'oro, ecc.; cavaliere di sprone, titolo di poco conto distribuito dal principe senza un preciso corrispettivo di meriti. In età comunale cavaliere era il titolo degli ufficiali di basso grado gravitanti attorno ai rettori di giustizia con mansioni di polizia; con il principato il cavaliere si confuse sempre più con il personale del bargello; meno spesso lo s'incontrava come cavaliere compagno o cavaliere di corte. ? Dopo il sec. XVII, nella scala gerarchica dei titoli nobiliari indicò l'ultimo gradino, preceduto da quello di nobile. La corona di cavaliere, quando il titolo sia trasmissibile ereditariamente, è un cerchio d'oro brunito ai margini sostenente quattro perle (tre visibili). Negli ordini cavallereschi i cavalieri possono, in generale, appartenere a due classi: quella dei cavalieri di giustizia, quando abbiano dato prove di nobiltà ereditaria, e quella dei cavalieri di grazia, quando abbiano ottenuto il titolo per meriti propri e per concessione dell'ordine. ? In tempi moderni cavaliere è solo un titolo onorifico conferito a un cittadino per meriti speciali. In Italia, sotto il regno, si avevano i cavalieri della Corona d'Italia; oggi si hanno i cavalieri al merito della Repubblica e i cavalieri al merito del Lavoro.

Clermont-Ferrand, concili di-

serie di concili celebrati tra il 525 e il 1296 a Clermont-Ferrand. Tra i principali: quello presieduto nel 1095 da Urbano II, che vi proclamò la I Crociata; quello celebrato nel 1130 da Innocenzo II contro l'antipapa Anacleto II e per una riforma della disciplina ecclesiastica; quello tenuto nel 1163 da Alessandro III contro l'antipapa Vittore IV.

crociata

Lessico
sf. [sec. XIII; da crociato].
1) Ciascuna delle guerre combattute dai cristiani contro gli infedeli per liberare il sepolcro di Cristo e conquistare la Terra Santa: bandire una crociata; partire per la crociata. Per estens., ciascuna delle spedizioni militari indette contro gli eretici. Fig., nella loc. bandire, gridare la crociata addosso a uno, dirne male, provocare nei confronti di qualcuno biasimo o persecuzioni.
2) Fig., campagna pubblica, azione sociale intrapresa a difesa di determinati principi morali, culturali, ecc. o per il raggiungimento di scopi umanitari: crociata contro l'analfabetismo, la fame, le malattie.
Storia: generalità
Il termine compare nel latino medievale a metà del sec. XIII, deriva da “crucesignati” (croisés), combattenti sotto l'insegna della croce, e designa le imprese dirette a liberare il Santo Sepolcro dai musulmani indette e benedette dai papi. La crociata è in origine un pellegrinaggio armato, dominato dallo spirito religioso; ma nasce già, alla fine del sec. XI, da esigenze profane: sete di nuove terre per l'eccedenza demografica dei Paesi occidentali, spirito d'intraprendenza di mercanti e d'avventura di cavalieri e di plebei. La conquista araba del sec. VII non aveva ostacolato il flusso dei pellegrini in Terra Santa. Ma la distruzione del Santo Sepolcro a opera del califfo al-Hakim nel 1009 destò grande emozione nel mondo cristiano, che, avvicinandosi il millenario della Crocefissione, da un lato intensificò i pellegrinaggi e li segnò di un'impronta di ostilità, e d'altro lato inasprì quella controffensiva cristiana che, con alterni successi, e senza alcuna unità d'azione, era in corso su tutte le frontiere marittime e terrestri tra il mondo della Mezzaluna e il mondo della Croce. All'avanguardia, la Spagna libera, le Repubbliche marinare, i Normanni d'Italia e Bisanzio. Ma anche dall'altra parte, dopo una serie di crisi, gli infedeli ripresero vigore, quando, a partire dalla fine del sec. X, la bandiera dell'islamismo fu strappata agli Arabi dai Turchi Selgiuchidi, più primitivi, bellicosi e fanatici. Impostisi al Califfato di Baghdad, che avevano dapprima servito, nel sec. XI conquistarono il Khorasan, la Persia, la Mesopotamia (Baghdad, 1055), l'Egitto, la Siria e infine Gerusalemme (1070). L'anno seguente l'imperatore bizantino Romano IV Diogene, che aveva cercato di contrastarli in Armenia e in Asia Minore, fu vinto e preso prigioniero a Manazkert (1071).
Storia: la prima crociata
La lotta che i cristiani combattevano contro l'Islam , senza unità (né concordia), era insufficiente a contenere la minaccia turca. A rendere più difficile un'intesa era inoltre intervenuta la separazione della Chiesa romana dalla Chiesa bizantina, provocata dal patriarca di Costantinopoli, Michele Cerulario, e sancita da Michele VI (Scisma d'Oriente, 1054). A papa Gregorio VII si era rivolto per aiuto l'imperatore d'Oriente Michele VII; ma Gregorio, pur avvertendo, come già prima di lui Silvestro II e Sergio IV, la necessità di una impresa comune contro i musulmani, impegnato nella lotta delle investiture, non poté prendere iniziative. Diversa situazione trovò la richiesta d'aiuto dell'imperatore Alessio I Comneno (1081-1118) al papa Urbano II: la Chiesa di Roma aveva rafforzato la sua autorità e tutta la cristianità era stata dolorosamente colpita dalla sconfitta di Zalaca in Spagna e dalla contemporanea caduta di Gerusalemme in mano ai Turchi (1086). La minaccia dell'Islam apparve tanto grave che il pontefice Urbano II (1088-99) credette giunto il momento di bandire la guerra santa, non solo per difendere i cristiani d'Oriente, ma anche per liberare Gerusalemme. Urbano II convocò un concilio a Piacenza (marzo 1095), dove lo raggiunse un'ambasceria bizantina per chiedere l'invio di guerrieri occidentali in difesa della Chiesa d'Oriente. Il papa parlò allora della necessità di aiutare i cristiani orientali, ma nel novembre dello stesso anno, in un secondo concilio, a Clermont, dopo aver ricordato le sofferenze dei cristiani d'Oriente, espose esplicitamente il programma della guerra santa, doverosa e meritoria per tutti i fedeli validi, per la liberazione di Gerusalemme, e terminò citando Matteo (16, 24): “Se qualcuno vuole seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” . La folla, esaltata e commossa, al grido di “Deus lo vult!” (Dio lo vuole!), giurò di prendere la croce e, come segno visibile del loro voto, i volontari fregiarono i loro abiti con una croce di stoffa, simbolo non solo di fede ma anche di appartenenza a una nuova comunità di pellegrini armati, protetti da particolari privilegi spirituali e materiali. Capo della spedizione fu il legato pontificio Ademaro di Monteil, vescovo di Puy. Il papa si era rivolto soprattutto alla nobiltà francese del sud della Loira; ma al suo appello risposero anche Provenzali e Lorenesi, guidati questi da Goffredo di Buglione duca della Bassa Lorena, con i fratelli Baldovino ed Eustachio, i cavalieri francesi di Ugo di Vermandois, fratello del re Filippo I, Roberto duca di Normandia, i conti di Champagne e di Fiandra, il conte Raimondo di Tolosa; a questi poi si aggiunsero i Normanni d'Italia guidati da Boemondo d'Altavilla, principe di Taranto, e da Tancredi suo nipote. Non solo grandi nobili si fecero crociati, ma anche cavalieri, cadetti di grandi famiglie con grandi ambizioni e magre risorse, e una gran massa di popolani, dai mercanti in cerca di guadagno ai servi in cerca di libertà, agli avventurieri che non avevano niente da perdere. La crociata dei signori fu anzi preceduta da quella cosiddetta dei pezzenti: popolani che, esaltati dalla predicazione di Pietro d'Amiens, detto l'Eremita, senza attendere la data prevista per l'inizio della spedizione vera e propria (15 agosto 1096), partirono, senza idea di ritorno, allo sbaraglio, molti portando seco moglie e figli; un'altra schiera parimenti disorganizzata e fanatica seguì un Gualtieri Senza Averi. Entrambe le schiere giunsero decimate a Costantinopoli; i superstiti, passato il Bosforo, furono annientati dai Turchi (ottobre 1096). Gualtieri perdette la vita; Pietro l'Eremita, salvato dai Bizantini, seguì poi la crociata dei signori, ben altrimenti preparata, che raggiunsero Costantinopoli in quattro distinti gruppi, per vie diverse: quelli della Francia settentrionale, con Ugo di Vermandois, per l'Italia e l'Epiro; quelli della Francia meridionale, con Raimondo di Tolosa, per l'Italia settentrionale, la Croazia e l'Epiro; i Lorenesi, con Goffredo di Buglione, per la Germania, la valle del Danubio, i Balcani; i Normanni d'Italia, con Boemondo e Tancredi d'Altavilla, per l'Adriatico e l'Epiro. Stando a una tradizione, che pecca certo per eccesso, 300.000 uomini, all'inizio del 1097, si congiunsero sotto Costantinopoli. A questo punto iniziarono le difficoltà: l'imperatore Alessio I Comneno non s'attendeva tanto; aveva contato solo su un buon contingente di mercenari. Si trovava invece di fronte a una milizia con una sua strategia di conquista, e con precedenti allarmanti di indisciplina, di prepotenza e di violenze (come quelle, nel corso del viaggio, a danno delle comunità ebraiche), e temeva che le terre, strappate dai crociati ai Turchi, non sarebbero state più restituite all'impero. Pose quindi, ai crociati, come condizione per trasportarli oltre il Bosforo, aiutarli e vettovagliarli, che essi giurassero di rendere le province riconquistate: richiesta che essi accettarono con grande riluttanza e dopo laboriose e aspre trattative. Passati in Asia, i crociati posero l'assedio a Nicea (maggio 1097), che, soccorsa invano da Kilidj-Arslan, sultano di Rum, si arrese in giugno e fu consegnata al rappresentante di Alessio. I crociati occuparono poi Dorileo e, varcato il Tauro, sopportando fame, sete e gravi perdite, raggiunsero la Siria e posero l'assedio ad Antiochia. Intanto Baldovino (poi, nel 1100, Baldovino I di Gerusalemme) si faceva signore di Edessa che, elevata a contea, fu il primo Stato fondato dai crociati (1098). La conquista di Antiochia, ritardata dall'intervento di forti soccorsi e dall'abbandono del campo da parte bizantina, fu compiuta grazie al valore e all'abilità di Boemondo d'Altavilla (giugno 1098), che si fece signore della città, dichiarandosi libero da ogni legame con l'imperatore bizantino; la crociata aveva così rotto con Bisanzio. Morto il legato pontificio Ademaro di Monteil vescovo di Le Puy, solo l'energica azione di Raimondo di Tolosa prima e di Goffredo di Buglione poi impedì il disgregarsi dei crociati. Il 7 giugno 1099, conquistata Betlemme, posero l'assedio a Gerusalemme, che nel frattempo era caduta in mano dei Fatimiti d'Egitto, e il 15 luglio, riforniti dai Genovesi, purificati da digiuni e preghiere, assalirono e conquistarono la città santa commettendo inauditi atti di violenza. In agosto, Goffredo di Buglione, riconosciuto capo militare della crociata, sconfisse ad Ascalona un esercito giunto dall'Egitto per soccorrere Gerusalemme.
Storia: la conquista di Gerusalemme
I Turchi erano stati privati dalla crociata della parte occidentale dell'Asia Minore, tornata bizantina, e della Siria e della Palestina, prese dai crociati. La Palestina e la Fenicia costituirono uno Stato, chiamato Regno di Gerusalemme, retto da Goffredo di Buglione col titolo di “Difensore del Santo Sepolcro” (Advocatus Sancti Sepulchri). Nel regno furono introdotte le istituzioni feudali (adattate in parte alla situazione locale), e ciò fu un elemento di debolezza per il nuovo Stato. Vassalli del regno gerosolimitano furono le contee di Edessa e di Tripoli, il marchesato di Tiro, le signorie di Galilea, Tiberiade e Giaffa: un complesso di territori senza alcuna organicità. L'annuncio della conquista di Gerusalemme spinse altri a seguire la via aperta dai crociati; ma ben quattro spedizioni degli inizi del sec. XII – dell'arcivescovo di Milano Anselmo IV, di Guglielmo II di Nevers, di Guglielmo IX d'Aquitania e di Guelfo (Welf) IV di Baviera – finirono disastrosamente. Cominciarono invece allora i crescenti successi delle Repubbliche marinare, che alimentarono di uomini e di mezzi la crociata altrimenti destinata a esaurirsi: Pisa anzitutto, il cui vescovo Daimberto, che aveva guidato 120 navi, si fece nominare patriarca di Gerusalemme con giurisdizione anche sul principato di Antiochia (1102). Anche Genova aveva inviato una flotta, comandata da Guglielmo Embriaco; e i veneziani avevano espugnato Smirne e ottenuto da Goffredo di Buglione notevoli privilegi mercantili. Morto Goffredo, gli succedette il fratello Baldovino I che, lasciata Edessa, prese per primo il titolo e la corona di re di Gerusalemme (Natale 1100). Sotto di lui e sotto il suo successore Baldovino II (1118-31) i confini del regno furono estesi verso il litorale grazie soprattutto alle flotte genovesi e veneziane . Il regno si consolidò alquanto sotto Folco d'Angiò (1131-43) e Baldovino III (1143-62) quando le disposizioni legislative emanate da Goffredo e dai suoi successori furono raccolte in un codice, le cosiddette Assise di Gerusalemme. Vedi anche Gerusalemme.
Storia: seconda e terza crociata
L'intrinseca debolezza del regno si manifestò alla prima seria controffensiva musulmana, mentre l'atabeg di Mossul Zengi, con un colpo di mano, s'impadronì di Edessa (1144) assumendo nel mondo islamico ruolo e fama di “difensore della fede”. La caduta di Edessa e la richiesta di aiuti spinsero Luigi VII, re di Francia, a sollecitare dal papa Eugenio III il bando di una crociata (1145). La predicazione, affidata a S. Bernardo di Clairvaux, ebbe un grande successo e convinse Luigi VII di Francia e l'imperatore Corrado III a farsi crociati, ciascuno alla testa di ca. 70.000 uomini; attraverso i Balcani puntarono separatamente verso Costantinopoli. Sorsero però contrasti con l'imperatore bizantino Manuele I Comneno, contrasti di cui approfittò Ruggero II re di Sicilia per conquistare Corfù e Cefalonia. Manuele I si alleò allora con il sultano di Rum; Corrado III venne così sconfitto a Dorileo e Luigi VII fu costretto ad abbondonare parte dei crociati per imbarcarsi con la cavalleria per Antiochia. La diffidenza e la mancanza di collaborazione fra i crociati pregiudicarono in partenza l'impresa. Riuniti finalmente a Gerusalemme (giugno 1148) i due sovrani decisero di appoggiare il re Baldovino III in una spedizione contro Damasco, ma, all'avvicinarsi di Nur ad-Din, figlio di Zengi, alla testa di un esercito, abbandonarono il campo. La II crociata si ridusse così a un vano pellegrinaggio. Più tardi Nur ad-Din e poi il suo successore Salah ad-Din (Saladino) approfittarono largamente dei disordini interni del regno e quando, dopo una contrastata lotta di successione, la corona passò a Guido di Lusignano, Salah ad-Din vinse quest'ultimo ad Hattin, presso il lago di Tiberiade (5 luglio 1187), lo catturò e il 2 ottobre successivo riconquistò Gerusalemme, rispettandone gli abitanti. Tiro, difesa da Corrado del Monferrato, riuscì a resistergli. Le notizie delle vittorie di Salah ad-Din spinsero il papa Clemente III a organizzare la III crociata, predicata dal legato Enrico d'Albano e dall'arcivescovo di Tiro. Al suo appello risposero Guglielmo II, re di Sicilia, Federico Barbarossa e i re di Francia e d'Inghilterra, Filippo II Augusto e Riccardo Cuor di Leone. Il primo a partire alla testa di 100.000 uomini e 20.000 cavalieri fu il Barbarossa che, conquistata Adrianopoli, impose all'imperatore bizantino, Isacco Angelo che aveva ostacolato i crociati, di provvedere al trasporto in Asia dell'armata cristiana. Dopo una brillante vittoria a Iconio (maggio 1190), varcato il Tauro, Federico I morì annegato nel f. Salef in Cilicia e la sua armata si sciolse. Frattanto, dalla Sicilia, Filippo Augusto e Riccardo Cuor di Leone veleggiavano verso la Palestina; ma quest'ultimo, costretto a uno sbarco a Cipro (1190), prese possesso dell'isola appartenente all'Impero bizantino (1190) e ne divenne poi re (1192). Poco dopo, il 12 luglio 1191, i due sovrani conquistarono Acri. Ma, in seguito a insanabili discordie con Riccardo, Filippo Augusto tornò in Francia, lasciando Riccardo unico capo della crociata. Pur avendo sconfitto due volte Salah ad-Din ad Arsuf (settembre 1191) e a Giaffa (agosto 1192), il re d'Inghilterra non poté liberare Gerusalemme, ma concluse una tregua di tre anni, che prevedeva garanzie per i pellegrini (1192). Ebbe così fine la III crociata, che valse a impedire la caduta della Siria franca, contribuendo al sorgere del II regno di Gerusalemme (così chiamato anche se ridotto ad Acri), destinato a Corrado del Monferrato, e quindi alla creazione di uno status quo il quale, sotto gli Ayyubiti, successori di Salah ad-Din, durò circa un secolo.
Storia: quarta crociata e nascita dell'Impero Latino d'Oriente
Dopo la riconquista di Gerusalemme a opera di Salah ad-Din le crociate persero l'originario carattere di imprese religiose e divennero operazioni militari con finalità politiche ed economiche, anche se coperte dal segno della Croce. Il primo e più notevole esempio di crociata di nome, ma non di spirito, fu la quarta. L'imperatore Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, progettò una spedizione in Oriente che avrebbe dovuto non solo liberare i Luoghi Santi, ma anche vendicare l'imperatore Isacco Angelo, deposto da Alessio III (1195-1203), ma la sua improvvisa morte (1197) annullò la spedizione. Poco dopo papa Innocenzo III bandì pure una crociata, nominando suo legato Pietro Capuano e affidandone la predicazione a Folco di Neully Nessun re rispose all'appello; risposero molti signori francesi e italiani, che si unirono agli ordini di Baldovino IX di Fiandra, Teobaldo di Champagne e Bonifacio I del Monferrato; il doge di Venezia Enrico Dandolo, mancando ai crociati il danaro necessario per il viaggio, accettò di trasportarli, ma a patto che riconquistassero Zara, che si era ribellata a Venezia. La deviazione della crociata e la conquista di questa città cristiana (1202) suscitarono contrasti fra i crociati e scandalo, e il papa scomunicò i Veneziani. Nell'inverno, a Zara, si presentò Alessio IV Angelo e propose ai crociati una nuova deviazione a Costantinopoli, per ristabilire sul trono il padre Isacco II, promettendo larghe concessioni e la riunione delle due Chiese. Pur fra molte esitazioni, la proposta fu accettata: i crociati investirono Costantinopoli, la cinsero d'assedio (in estate) e ne presero possesso : Isacco fu posto sul trono. Non essendo stati però mantenuti i patti, ed essendoci stata anche una sommossa contro Isacco e i crociati (per cui questi fu deposto e sostituito da un suo avversario, Alessio Marzuflo), questi ultimi, il 13 aprile 1204, rovesciarono fra stragi e saccheggi inauditi l'imperatore bizantino ed elevarono al trono Baldovino di Fiandra. Nacque così l'Impero latino di Costantinopoli (1204-61) e l'ex Impero bizantino fu diviso in feudi e Venezia, l'artefice della nuova situazione, occupò le posizioni costiere e insulari economicamente più importanti: il doge assunse il titolo di “Signore di una quarta parte e mezzo dell'impero greco”; Pisa e Genova, sacrificate, divennero irriducibili avversarie della trionfante Repubblica. I Greci tuttavia riconobbero come loro legittimo imperatore Teodoro Lascaris, che prese il titolo a Nicea e fomentò dall'Asia l'ostilità delle popolazioni greche (ortodosse) sottoposte ai latini (cattolici). L'Impero latino d'Oriente, indebolito dalle rivalità feudali, dall'opposizione nazionale greca e dalle insidie dell'impero di Nicea, e isolato dall'Occidente, fu rovesciato il 25 luglio 1261 da Michele VIII Paleologo, che da Nicea mosse alla riconquista di Costantinopoli aiutato dai Genovesi, insofferenti dell'onnipotenza di Venezia. Sopravvissero all'Impero latino alcune signorie feudali: il Ducato di Atene, il Principato di Acaia, le signorie di Corinto e di Tebe.
Storia: le ultime crociate
Essendo stata deviata la IV crociata, Innocenzo III ne bandì un'altra (1213), ma la morte (1216) gli impedì di vederla realizzata. La V crociata (1217-21), a differenza delle altre, vide la partecipazione di pochi francesi, perché impegnati in patria, sotto la guida di Simone di Montfort, nella cosiddetta crociata contro gli Albigesi (1209-29), indetta da Innocenzo III. L'esercito, sotto la guida di Andrea II d'Ungheria e di Leopoldo VI d'Austria, ai quali si unì Giovanni di Brienne, re titolare di Gerusalemme, assalì, ma invano, la fortezza del monte Tabor. Allora una parte dei crociati si ritirò mentre un'altra, al comando di Giovanni di Brienne, passò in Egitto e conquistò Damietta (1219). Avanzarono poi nella valle del Nilo avendo come obiettivo Il Cairo; ma, mancando i rinforzi che l'imperatore Federico II avrebbe dovuto condurre, furono sconfitti e persero Damietta (1221). ? La VI crociata (1228-29). Costretto da papa Gregorio IX, Federico II, che già nel 1215 aveva preso la croce, nel 1227 partì per la Siria, ma ritornò poco dopo l'imbarco col pretesto di una malattia. Scomunicato dal papa, ripartì l'anno seguente. Il suo, tuttavia, fu più un viaggio diplomatico che un'impresa militare: infatti l'imperatore, accordatosi con il sultano d'Egitto al-Kamil (Trattato di Giaffa, 1229) ottenne Gerusalemme, Betlemme, Nazaret e alcune località costiere fra San Giovanni d'Acri e Giaffa e tra Giaffa e Gerusalemme; e concluse anche una tregua decennale. Dopo di che Federico II cinse di propria mano la corona di re di Gerusalemme (su cui vantava dei diritti in quanto marito di Iolanda di Brienne), essendosi il patriarca rifiutato di incoronarlo perché scomunicato. La Chiesa non riconobbe tale crociata, come non aveva riconosciuto la IV. ? La VII crociata (1248-54). Nel settembre 1244 i musulmani riconquistarono Gerusalemme; ma la cristianità, travagliata da lotte interne, non reagì. Nel Concilio di Lione (1245), tuttavia, papa Innocenzo IV bandì una crociata che trovò il suo capo in Luigi IX, re di Francia, il quale organizzò con le sole forze del suo regno la spedizione. I crociati, sbarcati in Egitto il 16 giugno 1249, occuparono Damietta, poi, rifiutando di trattare con il sultano, che si offriva di cedere Gerusalemme, Ascalona e la Galilea orientale, marciarono verso Il Cairo; ma furono sconfitti a El-Mansura e il re stesso fu fatto prigioniero (6 aprile 1250). Il riscatto suo e dei crociati superstiti costò la restituzione di Damietta e un'enorme somma di danaro. Recatosi poi in Terra Santa, Luigi IX, dal 1250 al 1254, rafforzò le piazzeforti francesi di Acri, Cesarea, Giaffa, Sidone e pacificò il Principato di Antiochia, riconciliandolo con gli Armeni. Tornò in Francia alla notizia della morte della madre (1254). ? L'VIII crociata fu intrapresa ancora da Luigi IX per soccorrere i resti dei domini cristiani in Siria, minacciati ora anche dall'avanzata dei Mongoli. Il re scelse come prima tappa oltremare Tunisi, dove morì di peste poco dopo l'arrivo (1270). L'esercito francese, decimato dalla peste, tornò in patria. Il fratello di Luigi IX, Carlo d'Angiò, re di Sicilia, che aveva seguito l'impresa, trattò la pace col bey di Tunisi. La crociata ebbe un seguito in Siria, di scarsa importanza, a opera di Edoardo I d'Inghilterra. ? Dopo la caduta di Acri, l'ultimo baluardo dei cristiani in Terra Santa, per opera del sultano d'Egitto al-Asraf Khalil', che piegò la vigorosa resistenza opposta dai templari e da contingenti francesi e inglesi (18-28 maggio 1291), furono dette crociate alcune imprese più o meno rilevanti contro gli infedeli, tutte comunque non paragonabili alle precedenti, e specialmente alla prima, sia per lo spirito che le ispirò, sia per le forze che vi si impegnarono. Così furono dette crociate la conquista di Rodi (che era peraltro bizantina) da parte dei Cavalieri Ospitalieri (1308) e quella di Smirne, turca, da parte degli Ospitalieri stessi, insieme con Veneziani, Genovesi e Ciprioti (1344). Dalla seconda metà del sec. XIV, la progressiva avanzata dei Turchi Ottomani verso il cuore dell'Europa ridiede una certa attualità all'idea di crociata, intesa però in senso non di guerra santa per la riaffermazione del cristianesimo in Oriente, ma di guerra per la difesa dell'Occidente stesso dall'islamismo sulla via di sempre più ampie conquiste. A un appello di Urbano V, Amedeo VI di Savoia rispose con una crociata che riuscì brillante, ma senza conseguenze (Gallipoli, 1366). Ben più rilevante fu l'impresa promossa da Sigismondo d'Ungheria, col concorso di elementi francesi e tedeschi, per alleggerire la pressione ottomana sul Danubio e liberare la Penisola Balcanica; ma i crociati furono battuti dal sultano Bayazid I a Nicopoli (12 settembre 1396). Di nuovo gli Ungheresi, sotto Giovanni Unyadi, rispondendo all'appello dell'imperatore bizantino Giovanni VIII, e con l'incoraggiamento del papa Eugenio IV, affrontarono, con pochi alleati polacchi, serbi e valacchi, i Turchi nei Balcani; ma ancora, dopo alcuni successi, vennero sconfitti da Murad II a Varna (10 novembre 1444); soccorsi veneziani giunsero troppo tardi. Un tentativo di rivincita ebbe pure esito disastroso (Kossovo, 1448). Dopo la caduta di Costantinopoli (1453) e il crollo definitivo dell'Impero bizantino per opera di Maometto II, Pio II bandì una crociata in cui, nonostante molte promesse, nessuno osò avventurarsi. Il papa morì ad Ancona, in attesa dei crociati (1464). E crociata si chiamò ancora l'impresa, patrocinata da Pio V e a cui parteciparono forze spagnole, veneziane e in misura minore genovesi, toscane e sabaude, nonché i Cavalieri di Malta, sotto il comando di Don Giovanni d'Austria, che si concluse con una trionfale ma sterile vittoria sui Turchi nelle acque di Lepanto (7 ottobre 1571). Concludendo, dopo il grande successo della I crociata, le posizioni conquistate dai cristiani nel mondo musulmano regredirono sempre più: la caduta di Acri (1291), l'insediamento degli Ottomani in Europa (1354) e la loro progressiva conquista dell'intero Impero bizantino (completata pochi anni dopo la caduta di Costantinopoli), fino al Danubio e oltre, col relativo dominio dei mari, rappresentano i momenti più importanti del fallimento delle ultime crociate. Del resto, lo spirito di crociata, essenzialmente religioso, si era rapidamente esaurito; già affievolito nel sec. XIII, nel XIV era morto. La nuova società non lo comportava più.
Storia: conseguenze delle crociate
Le crociate fallirono il loro scopo originario, la liberazione dei Luoghi Santi dai musulmani. Restano tuttavia un fenomeno storico della massima rilevanza non solo religiosa, ma politica, economico-sociale, culturale. Politicamente, impegnarono i musulmani contenendone e ritardandone l'avanzata in Europa, e ciò permise lo sviluppo degli Stati centro-occidentali. L'Impero bizantino, a sua volta, pur avendo ostacolato, e non senza ragioni, le crociate, grazie a esse poté sopravvivere più a lungo, in quanto i Turchi erano il nemico comune suo e dei crociati. Dal punto di vista sociale, le crociate offrirono infinite occasioni di affermazione a una feudalità, specialmente minore, che in Occidente tendeva a esaurirsi in una vita angusta e rissosa, senza prospettive di migliori posizioni materiali e spirituali: la cavalleria trovò in Oriente il suo più severo e valido banco di prova. La borghesia, infine, e con essa i ceti più modesti, vide aprirsi dalle armi dei crociati gli orizzonti di un'attività commerciale e di un arricchimento senza precedenti, che costituirono le basi della sua potenza politica. La borghesia delle Repubbliche marinare italiane fu tra tutte la maggior beneficiaria delle crociate: Pisani, Genovesi, Veneziani si assicurarono basi commerciali, privilegi, monopoli e quartieri, logge e fondachi in tutto l'Oriente sempre meno controllato da Bisanzio; fieramente rivali tra loro, si divisero in certo modo le rispettive zone d'influenza: Genova, in Siria, sulle coste della Piccola Armenia, sugli Stretti e nel Mar Nero; Venezia, nell'Egeo, a Cipro, a Creta; Pisa, finché non fu abbattuta da Genova (1284), sulle coste dell'Africa settentrionale; ma non esitarono mai a violarle, in vista del predominio assoluto. Ai rapporti militari e commerciali si accompagnavano naturalmente i rapporti culturali in senso lato: con le merci (soprattutto merci pregiate: spezie, seterie, metalli preziosi, gemme) passarono dall'Oriente bizantino e musulmano all'Occidente anche codici di classici greci e testi arabi, sia originali, sia derivati da antichi testi greci che in Europa erano sconosciuti o erano andati perduti. Anche nel campo religioso, gli incontri tra fedi diverse contribuirono a un'apertura più larga e predisposero alla reciproca comprensione e alla tolleranza. E pure rilevanti furono l'allargamento delle conoscenze geografiche e l'ambizione di accrescerle, con nuove e imprevedibili esperienze. Per questi motivi fondamentali, e per molti altri ancora, le crociate, al di là delle intenzioni dei loro protagonisti, furono portatrici di stimoli fecondi allo sviluppo della civiltà europea nel suo complesso e costituiscono quindi una componente essenziale della sua storia.

Gerusalemme

Generalità
Città (633.700 ab. secondo una stima del 1998) capitale di Israele e capoluogo dell'omonimo distretto. La città è situata a ca. 800 m sulle colline della Giudea , in favorevole posizione sia per le comunicazioni tra il mare e la valle del Giordano sia per la difesa, essendo racchiusa per tre lati da profonde valli, tra cui quella percorsa dal Cedron. Gerusalemme, costituita da moderni quartieri, è il massimo centro politico e culturale dello Stato, con un'università, la biblioteca nazionale, istituti superiori, musei, ecc.; è sede di industrie meccaniche, chimiche, farmaceutiche, alimentari e del tabacco. Gerusalemme, inoltre, è una delle maggiori piazze della lavorazione dei diamanti. Nel quadro delle attività economiche riveste un forte rilievo il settore terziario, che assorbe l'80% della popolazione attiva. In ebraico, Yerushalayim; in arabo, El Quds.
Storia: dalle origini alla conquista inglese
Già citata in testi egiziani nel sec. XIX a. C., era capitale di un regno vassallo dell'Egitto nel sec. XIV a. C. Gli abitanti cananei (Gebusei) resistettero agli Israeliti fino al sec. XI, quando David prese Gerusalemme e ne fece la capitale del suo regno; Salomone vi costruì il tempio e il palazzo reale. Dopo la scissione del regno, rimase capitale di Giuda e conobbe alterne vicende fino all'espugnazione a opera di Nabucodonosor II (598 e 587 a. C.) che distrusse il tempio, abbatté le mura, deportò la popolazione in Babilonia. Gerusalemme acquistò allora aspetti mitici: l'esilio fu spiegato come punizione di colpe e il ritorno fu prospettato come restaurazione morale. Col ritorno degli esuli consentito da Ciro si ebbe la costruzione del “secondo” tempio (519 a. C.) e delle mura (452 a. C., con Neemia); le vicende della città (restaurazione dei Maccabei, distruzione di Pompeo, costruzioni di Erode) culminarono con la seconda radicale distruzione a opera di Tito (70 d. C.) al termine della rivolta giudaica, con definitiva scomparsa del tempio e dispersione della popolazione. La città riacquistò una certa importanza al tempo di Costantino, quando i luoghi santi divennero centro di culto. Nel 638 fu conquistata dai musulmani. Dal 1099 al 1187 fu capitale del Regno latino di Gerusalemme. Dopo aver goduto di una notevole prosperità sotto i Mamelucchi, decadde sensibilmente una volta conquistata dagli Ottomani che la conservarono, se si eccettua la parentesi egiziana del 1831-40, dal 1517 al 1917 quando, nel dicembre, fu conquistata da Allenby. Dal 1920 al 1948 fu capitale della Palestina posta sotto mandato inglese.
Storia: dalla seconda guerra mondiale al Duemila
Nei piani dell'ONU, Gerusalemme avrebbe dovuto essere internazionalizzata; in effetti nel 1948 la città venne divisa tra gli Israeliani, che si assicurarono il settore occidentale, e i Giordani, che conquistarono il settore orientale. Nel 1950 essa fu scelta come capitale di Israele. Dopo la guerra del 1967, gli Israeliani riunificarono la città annettendo il settore giordano. Il 30 luglio 1980, sanzionando una realtà di fatto peraltro contestata in ambito internazionale, la Knesset (Assemblea nazionale israeliana) definiva Gerusalemme “capitale eterna e indivisibile di Israele”. Si intensificava anche l'opera di colonizzazione intorno a Gerusalemme , nel tentativo di invertire una tendenza demografica che vedeva la netta superiorità numerica dei Palestinesi. L'obiettivo veniva raggiunto all'inizio degli anni Novanta, quando venivano presi anche numerosi provvedimenti limitativi della libertà dei Palestinesi. La contestata sovranità sulla città diventava, insieme con la complessa vicenda arabo-palestinese, una delle ragioni principali del fallimento delle trattative tra le due parti svolte a Camp David, negli USA, nel luglio 2000. Alla fine del settembre 2000, in seguito alla provocatoria visita di Ariel Sharon, leader del partito della destra ebraica, il Likud, alla Spianata delle Moschee di Gerusalemme (area della città ritenuta sacra dai musulmani), scoppiavano violentissimi scontri che portavano ben presto a una nuova Intifada palestinese. La vittoria di Sharon alle elezioni politiche (febbraio 2001) e la formazione di un governo da lui guidato riportavano Israele su posizioni di estrema intransigenza rispetto allo statuto da attribuire della città.
Arte
Scomparsi il palazzo e il tempio di Salomone, i più importanti monumenti antichi di Gerusalemme appartengono alla fase detta “del secondo tempio”, ricostruito a opera di Erode dopo il 37 a. C. e di cui rimangono i grandi muri di sostruzione, gli ingressi meridionali coperti a volta, resti dei ponti (“arco di Wilson” e “arco di Robinson”) che congiungevano il tempio al centro della città. Accanto al tempio sono i resti della fortezza Antonia, così chiamata da Erode in onore di Marco Antonio. Dopo la distruzione del 70 d. C. e un lungo periodo di abbandono, Gerusalemme fu ricostruita da Adriano col nome di Aelia Capitolina. Della città romana, costruita secondo il consueto schema ortogonale, restano tracce nell'impianto urbanistico dell'attuale città vecchia. Numerose, attorno a Gerusalemme, le necropoli, con tombe monumentali (tombe dei Re, tomba detta di Erode, tomba dei Benè Hezir e tombe dette di Zaccaria, di Assalonne e di Giosafat nella Valle di Cedron) nelle quali si mescolano forme architettoniche orientali ed ellenistiche. Nella città antica, compresa entro la cinta delle mura medievali, si distinguono cinque quartieri tradizionali; quello cristiano, quello ebraico, quello musulmano, quello armeno e infine, a sé stante, l'area compresa nel recinto sacro musulmano (al-Haram al-Sharif). I monumenti della città presentano un aspetto assai eterogeneo, dovuto al sovrapporsi nei secoli di civilizzazioni diverse. Gli edifici costruiti nel periodo che va da Costantino a Giustiniano furono in gran parte distrutti dall'invasione persiana del 614. Restano, fortemente alterate, le chiese di S. Giovanni Battista e della Tomba della Vergine, entrambe del sec. V. Il monumento musulmano più importante è la Qubbat as-Sahra (Cupola della Roccia, erroneamente detta Moschea di Omar), costruita dal califfo omayyade !Abd al-Malik tra il 687 e il 691 sulla spianata dell'antico tempio salomonico, dove affiorava la roccia (sahra) dalla quale Maometto avrebbe iniziato il suo viaggio verso il cielo e sulla quale Abramo avrebbe dovuto compiere il sacrificio di Isacco. L'edificio ha pianta ottagonale, con quattro porte ai punti cardinali che danno accesso a un vano centrale cupolato, circondato da due gallerie concentriche riservate al rito della deambulazione intorno alla sahra. La preziosa decorazione musiva delle parti interne è quella originale del sec. VII; quella esterna fu sostituita nel sec. XVI, a opera di Solimano il Magnifico, da un paramento di ceramica smaltata. Alle epoche omayyade e abbaside risale anche la monumentale Moschea Lontana (Masjid al-Aqsa), che conserva un bellissimo mihrab dell'epoca di Saladino (sec. XII), e un minbar, quasi contemporaneo, fatto costruire da Norandino come ex voto per la riconquista della città sui crociati. Al periodo dei Mamelucchi Burgiti risalgono la fontana di Qayt Bey (1482) e il portale della Madrasa Ashrafiyya. Dal 1517 per circa quattro secoli Gerusalemme fece parte dei domini ottomani, che soprattutto con Solimano il Magnifico l'arricchirono di numerose opere d'arte, fra cui le mura fortificate della cittadella, con la bella Porta di Damasco (1532) e la fontana di Bab el-Silsile (1537). Al periodo della conquista cristiana risalgono la chiesa di S. Anna (1130-40), la chiesa di S. Giacomo (sec. XII) e il rifacimento del Santo Sepolcro (l'edificio originario, dell'epoca di Costantino, era formato da una basilica unita a un'ampia rotonda). Anche le mura merlate, intervallate regolarmente da torri e da porte, risalgono alla ricostruzione fattane dai crociati. All'architettura gotica francese si richiama la Sala del Cenacolo, che i francescani fecero costruire nel Trecento da maestranze cipriote sul luogo della cosiddetta Tomba di Davide. Dopo i periodi abbaside e omayyade e la conquista turca vi fu un periodo di decadenza (sec. XVII-XVIII). Nell'Ottocento e nel primo Novecento sorsero a Gerusalemme, a opera di Tedeschi, Inglesi, Greci, Francesi, Copti, Armeni, ecc., innumerevoli edifici e complessi religiosi nei più diversi stili di imitazione.
Urbanistica
Nel 1917, con l'ingresso del generale Allenby, si aprì per la città un nuovo momento. Gerusalemme, fino ad allora prevalentemente chiusa nei quartieri cristiano, armeno, ebreo, arabo, si estese all'esterno del centro storico, in particolare a W; furono eretti edifici religiosi, ospedali, istituti culturali, residenze e vennero portati a termine restauri. Si elaborarono vari schemi di piano regolatore (1918, 1919 da P. Geddes, 1922, 1929, 1930); l'ultimo, nel 1944, ipotizzava un grande anello stradale fuori della città in cui era prevista l'espansione residenziale, un asse industriale lungo la strada per Tel Aviv, spazi verdi e una cintura verde (agricola a E, boscosa a W). Il centro storico era salvaguardato da una rigorosa normativa, mentre particolare attenzione era rivolta ai luoghi sacri delle religioni cristiana, ebrea, musulmana. Dopo la nascita dello Stato d'Israele (1948), il centro storico e le aree a NE restarono agli Arabi. Assai forte, specialmente dopo i trattati del 1950, fu l'espansione urbana nella parte israeliana della città, con la costruzione di quartieri residenziali, grandi alberghi, unità di abitazione e della Città universitaria ebraica (1954-60), che comprende gli istituti, i laboratori, la biblioteca, lo stadio, l'auditorium, ecc. Il Museo Nazionale di Israele, aperto nel 1965, comprende il Museo Biblico e Archeologico Samuel Bronfman (storia della Palestina), il Museo d'Arte Bezalel (pittura moderna, arredi rituali giudaici, costumi e oggetti della cultura ebraica di ogni Paese dal Medioevo a oggi), la collezione di scultura Billy Rose (opere di Rodin, Maillol, Bourdelle, Zadkine, ecc.) e il Sacrario del Libro, dove sono conservati i rotoli del Mar Morto. Destinato a collezioni di arte moderna è il Nathan Cunnings 20th Century Art Building, inaugurato nel 1990. Il Museo dell'Olocausto (Yad Vashem) è il primo museo storico che conservi l'ampia e sconvolgente documentazione sulle persecuzioni subite dagli Ebrei durante il nazismo; vi è archiviato l'elenco dei dispersi e deceduti nei campi di concentramento. In ricordo dei bambini è un edificio-monumento, il Children Memorial, appartenente al complesso dello Yad Vashem. A partire dall'occupazione israeliana si è operata una vasta operazione di restauro e di risanamento del centro antico.

Granada (città della Spagna)

Generalità
Città (242.823 ab. nel 1998) della Spagna, situata nell'Andalusia, a 685 m sui primi contrafforti del versante nordoccidentale della Sierra Nevada, presso la confluenza nel Genil del fiume Darro, che attraversa l'abitato dividendolo in due parti. Sulla destra del fiume si trova la collina dell'Albaicín con la città vecchia che conserva tuttora il tipico aspetto arabo, con vie strette e tortuose, mentre ai piedi del colle si stende la città nuova. Tradizionale centro agricolo-commerciale, con un fiorente artigianato (lavorazione del cuoio, del ferro battuto, delle ceramiche), la città si è sviluppata soprattutto negli ultimi decenni grazie all'installazione di industrie alimentari (zuccherifici, conservifici, oleifici, distillerie), del tabacco, meccaniche ed edili e ancor più al potenziamento del turismo. Università. In italiano, Granata.
Storia
Fondata, pare, dai Turduli, primitiva popolazione iberica, era già nota nel sec. V col nome di Elubirge e poi con quello di Iliberri o Iriberri (forse Città Nuova), sotto il quale fu municipio romano. Il posteriore nome di Granada , interpretato come un'allusione alla forma della città, eretta su tre colli e vista come una melagrana aperta (“granada”), sembra invece derivare da Garnata, nome di uno dei quartieri della città. Fu sede di uno dei primi vescovi cristiani di Spagna (San Cecilio) e del primo concilio tenuto nella penisola (300). I Visigoti ne fecero un centro militare. Nel 711 cadde, non senza posteriori ribellioni, in mano ai Mori e col nome di Medina Elvira fu capoluogo di una delle loro province. Nel sec. XI, alla caduta del califfato di Cordova, Zawi ben Ziri (della dinastia berbera degli Ziriti) ne fece la capitale di un regno autonomo. Appartenne quindi agli Almoravidi, agli Almohadi e dal 1231 alla dinastia dei colti e raffinati Nasridi, sotto i quali raggiunse il massimo splendore. Le discordie interne e soprattutto l'irresistibile avanzata della riconquista cristiana posero fine al regno moro, che capitolò nel 1492 davanti a Isabella di Castiglia e Ferdinando II d'Aragona che predilessero l'antica città e vollero esservi sepolti. Inoltre il re concluse, nel 1500, un trattato con Luigi XII di Francia che sanciva la spartizione del Regno di Napoli ai danni dei re aragonesi. Carlo V vi risiedette varie volte, la dotò di università (1526) e iniziò la costruzione di un palazzo entro la stessa Alhambra. Nel 1568 la ribellione dei Moriscos, soffocata nel sangue, privò Granada dei suoi abitanti più attivi, facendone una modesta cittadina di provincia. Centro dei moti liberali, la città fu teatro, durante la guerra civile del 1936, di una violenta repressione.
Arte
Granada , che fu uno dei maggiori centri di diffusione della tecnica ceramica islamica in Europa, distinguendosi per la produzione di vasellame di terracotta invetriata e di azulejos, conserva numerosi monumenti del periodo arabo, costruiti tra il sec. XI e il XIV, ma successivamente trasformati. Oltre all'Alhambra, che è il più importante, si ricordano la Puerta de Elvira (porta principale della cinta, sec. XII), il Cuarto Real de S. Domingo (torre di cinta con sala adorna di stucchi e azulejos, sec. XIII), il Generalife (residenza di campagna dei califfi arabi, sec. XIV), il quartiere dei falconieri (Albaicín) con i resti della moschea, il quartiere di Alcazaba Cadima. La cattedrale, eretta in stile rinascimentale da Diego de Siloé nel 1528-43 e completata nel 1700, presenta 5 navate giustapposte a una rotonda a doppio ambulacro; all'interno fasci di colonne corinzie sorreggono volte mudéjar. Sul fianco destro si apre la cappella reale, eretta tra il 1505 e il 1507 da E. de Egas in forme plateresche, che accoglie le tombe di Ferdinando e Isabella eseguite dal fiorentino D. Fancelli; nella sacrestia è conservato fra l'altro un prezioso gruppo di dipinti primitivi olandesi (opere di Memling, D. Bouts, R. van der Weyden). Altri edifici rinascimentali di Granada sono le chiese di S. Jerónimo e di S. Ana, pure di D. de Siloé, l'ospedale di S. Juan de Dios (iniziato nel 1552), il palazzo della Curia (1534), il Tribunale Supremo (1587). La sagrestia della Certosa, di L. de Arévalo e M. Vázquez (1727-64) è invece un tipico esempio dell'architettura tardobarocca spagnola, caratterizzata da uno sfrenato decorativismo. Il Museo Arqueológico Provincial conserva materiale preistorico, iberico, classico, visigotico e musulmano; il Museo de Bellas Artes, dipinti di Alonso Cano, Juan de Sevilla e di altri artisti spagnoli.

Malta, Cavalièri di-

(propr. Sovrano Militare Ordine Gerosolimitano di Malta e anche Sovrano Ordine di San Giovanni di Gerusalemme). Nato nel sec. XI a Gerusalemme come ordine religioso ospedaliero presso un monastero benedettino fondato da mercanti amalfitani, fu riconosciuto verso il 1113 da papa Pasquale II. Divenuto, quindi, ordine militare con la costituzione di una classe di cavalieri per la difesa di Gerusalemme e la guerra contro i Saraceni, come tale fu riconosciuto verso il 1130 da papa Innocenzo II. Da questo momento le vicende dell'Ordine furono legate alle crociate: ricaduta Gerusalemme in possesso dei Musulmani (1187), l'ordine si trasferì (1191) a S. Giovanni d'Acri, a Cipro, e quindi (1310) a Rodi, dove conobbe due secoli di grande potenza economica e militare. Occupata Rodi dai Turchi (1522), l'ordine ebbe in feudo dall'imperatore Carlo V l'isola di Malta (1530), donde nel 1798 fu cacciato a opera delle truppe francesi; dopo varie vicissitudini la sede fu stabilita nel 1834 a Roma. ? Nonostante dal 1798 sia privo di territorialità, l'Ordine di Malta è sovrano, cioè investito di alcune prerogative, come quella di concedere decorazioni, che spetta soltanto agli Stati sovrani, e ha personalità di diritto internazionale. Esso si articola in tre “lingue” (comprendenti alcuni “grandi priorati”): d'Italia, di Spagna, d'Alemagna, e in alcune “associazioni nazionali”; organi centrali sono il sovrano consiglio e il Gran Maestro, eletto a vita. Stemma dell'ordine è la croce bianca in campo rosso; decorazione è la croce a otto punte. Nell'ultima carta costituzionale (approvata con breve pontificio nel 1961) i membri dell'Ordine sono ripartiti in tre gruppi, secondo che abbiano pronunciato i tre voti (castità, obbedienza, povertà), abbiano formulato solenne promessa di obbedienza ai superiori e di osservanza della legge di Dio, dedichino senza voti o promesse la loro attività al servizio dell'Ordine. Al primo gruppo appartengono i Cavalieri di Giustizia (per i quali è prescritta la prova di nobiltà) e i Cappellani Conventuali; al secondo, i Cavalieri di Obbedienza, per i quali pure è prescritta la prova di nobiltà; al terzo, i Cavalieri e le Dame di Onore e Devozione (prova di nobiltà), i Cappellani Conventuali ad honorem e i Cappellani Magistrali; i Cavalieri e le Dame di Grazia e Devozione (prova di nobiltà della sola famiglia paterna); i Cavalieri e le Dame di Grazia Magistrale, ai quali si richiede solo l'appartenenza a famiglie di elevata condizione sociale, ammessi all'Ordine per speciali titoli di benemerenza. Per benemerenze verso l'Ordine sono ammessi anche i Donati, i quali, a differenza dei Cavalieri e delle Dame di ogni categoria, non possono essere insigniti della Gran Croce.

órdine

Lessico
sm. [sec. XIV; dal latino ordo -inis, fila, disposizione].
1) Collocamento, sistemazione di ogni cosa nel posto adatto; assetto, disposizione di più cose o delle varie parti di una cosa secondo un criterio prestabilito in base a esigenze pratiche o ideali; il criterio stesso seguito: mettere in ordine i libri, i cassetti; abbiamo conservato l'ordine preesistente; lavorare con ordine. Riferendosi non alla distribuzione nello spazio, ma allo stato in cui oggetti o ambienti si trovano, alla cura con cui sono tenuti: tenere in ordine la casa. Nelle loc., mettersi in ordine, lavarsi, acconciarsi e vestirsi con proprietà; l'ordine del creato, la sua armonica costituzione e disposizione; l'ordine naturale, il complesso delle leggi della natura; amore per l'ordine, tendenza a essere precisi, accurati.
2) Modo con cui si susseguono i vari elementi di una serie materiale o ideale: ordine crescente, decrescente, di grandezza; ordine cronologico; ordine gerarchico; elencare in ordine alfabetico. In particolare, ordine diretto, ordine inverso, costruzione diretta o inversa del periodo; numero d'ordine, quello indicante il posto occupato da ciascun elemento in una serie; narrare per ordine, procedere con ordine, osservando la successione logica o temporale dei fatti e degli argomenti. Anche modo di schierare, di disporre i soldati, formazione: ordine di marcia, di battaglia; avanzare in ordine sparso; ritirarsi in buon ordine, senza sbandamenti; fig., desistere da un'impresa che si riconosce molto difficile o impossibile.
3) Serie di più cose eguali disposte in linea orizzontale; fila: ordine di palchi; tre ordini di banchi. Per estensione, serie di fatti che si distinguono da altri per certe determinate caratteristiche: considerazioni di ordine pratico e di ordine morale; talora sinonimo di natura, carattere: questioni d'ordine metafisico; anche il posto che una singola cosa o persona occupa in una graduatoria con particolare riferimento al pregio, al valore e simili: spettacolo di prim'ordine, eccellente; merce di terz'ordine, scadente; albergo d'infimo ordine, pessimo.
4) Ogni parte in cui viene sistematicamente distinta secondo determinati criteri organici o descrittivi una pluralità di esseri o di cose: scuole dell'ordine superiore, inferiore; ordini architettonici, sistema di elementi morfologici, connessi secondo precisi rapporti per strutturare un'unità architettonica. In particolare: A) entità sistematica che nella scala gerarchica della classificazione zoologica e botanica è situata fra la classe che la comprende e la famiglia che ne fa parte. B) In demografia, ordine di generazione, ordine secondo il quale i nati da una stessa donna vengono generati (primogeniti, secondogeniti, ecc.). Generalmente, data la difficoltà di stabilire l'ordine di generazione per parti gemellari, o di computarvi gli eventuali aborti, si preferisce analizzare l'ordine di nascita che si basa usualmente soltanto sulla registrazione dei nati vivi.
5) Complesso di persone che per condizione sociale, professione, modo di vivere o per altre caratteristiche costituiscono una classe a sé; categoria, ceto, associazione: l'ordine dei nobili; ordini professionali, cavallereschi, religiosi. In particolare, ordine giudiziario, il complesso degli organi che esercitano il potere giudiziario. La Costituzione italiana (art. 104) riconosce all'ordine giudiziario autonomia e indipendenza da ogni altro potere. Per la propria autonomia l'ordine giudiziario ha il diritto di mettere in essere gli atti riguardanti lo stato giuridico dei magistrati e i provvedimenti disciplinari nei loro confronti.
6) Funzionamento disciplinato, regolato da norme opportune in vista di un dato fine: l'ordine sociale; l'ordine del traffico; nella scuolal'ordine è necessario. Nelle loc.: mantenere l'ordine, la disciplina; richiamare all'ordine, ammonire, richiamare a un comportamento più disciplinato; ordine pubblico; ordine costituito, il modo in cui una società è organizzata; i tutori dell'ordine, gli agenti di polizia, i carabinieri.
7) Disposizione precisa e perentoria, comando dato a voce o per iscritto: dare, impartire un ordine; gli ordini vanno eseguiti. Nelle loc.: essere agli ordini di, ricevere ordini da qualcuno, essere alle sue dipendenze; ai vostri ordini, formula di cortesia con cui ci si dichiara a completa disposizione di qualcuno. Con significati particolari, mandato: ordine di comparizione; prescrizione: seguire gli ordini del medico; direttiva: non ha lasciato nessun ordine; impiegato d'ordine; parola d'ordine, (vedi anche parola ); in ordine a, in merito, relativamente a. Per estensione, commissione di merci o servizi, ordinazione: evadere un ordine.
8) Ordine del giorno, elenco degli argomenti che devono essere discussi in seno a un organo collegiale. Per esempio, in base al Regolamento della Camera dei Deputati, “l'assemblea o la commissione non può discutere né deliberare su materie che non siano all'ordine del giorno”. Competente alla formazione dell'ordine del giorno, in ogni organo collegiale amministrativo, è il presidente. Per estensione, citare all'ordine del giorno, segnalare all'ammirazione pubblica una persona meritevole; essere all'ordine del giorno, essere di attualità, succedere abitualmente: è un problema all'ordine del giorno.
9) Sacramento che conferisce il sacerdozio gerarchico con la potestà di agire nel nome di Cristo e di continuare la sua presenza.
10) In matematica: A) sinonimo di ordinamento, per esempio, di mutare l'ordine dei fattori in un prodotto. B) Numero caratteristico di un ente matematico, in particolare geometrico; in questa accezione, l'ordine di un corpo finito, l'ordine di un gruppo finito, è il numero degli elementi di quel corpo, di quel gruppo; l'ordine di un'equazione differenziale è quello della derivata di ordine massimo che compare in quell'equazione; per l'ordine di un infinito, di un infinitesimo, vedi anche infinito, infinitesimo; per l'ordine di un determinante, vedi matrice. In geometria, per l'ordine di una curva, di una superficie, vedi anche curva, superficie; per l'ordine di contatto di due curve, vedi contatto. In aritmetica si parla di unità del 1º ordine, del 2º ordine, ecc., per indicare, in un numero, le unità, le decine, ecc.; in relazione a questa accezione, nel linguaggio scientifico, per ordine di grandezza si intende il valore approssimato di una data grandezza; per esempio, la massa di 212 kg è di 2 ordine di grandezza minore della massa di 8 kg.
Diritto: ordini professionali
Sono definiti ordini o collegi professionali le persone giuridiche di diritto pubblico aventi carattere associativo, ossia corporazioni professionali di persone che esercitano una stessa attività lavorativa, generalmente a carattere intellettuale, particolarmente importante dal punto di vista dell'interesse pubblico (per esempio, le professioni dei medici, degli avvocati, dei notai, degli ingegneri e architetti, dei giornalisti e pubblicisti, ecc.). Chi esercita queste professioni deve essere iscritto in appositi albi professionali, tenuti dal rispettivo ordine o collegio, e poiché gli ordini e collegi sono dotati anche di potere disciplinare riguardo alla condotta professionale, e talora anche privata, dei rispettivi iscritti, l'eventuale radiazione dagli albi stessi o la sospensione comportano l'impossibilità definitiva o temporanea di continuare a esercitare la professione stessa. Gli ordini o collegi professionali sono organizzati con leggi, onde la loro struttura interna garantisca l'autonomia e democraticità degli organi direttivi che devono rappresentare gli iscritti. Fra le funzioni principali vi è anche quella di stabilire le tariffe professionali.
Diritto: ordine pubblico
È il complesso dei principi politici e delle norme che regolano l'organizzazione e l'assetto di uno Stato. È questo l'aspetto normativo dell'ordine pubblico, mentre quello amministrativo si precisa nei compiti di polizia e di sicurezza interna esercitati dallo Stato. Il Codice Penale (Libro II, titolo V) considera reati contro l'ordine pubblico: l'istigazione a delinquere avvenuta in pubblico e commina la multa o la reclusione fino a un anno per l'istigazione a contravvenzioni, da uno a cinque anni per istigazione al delitto; l'istigazione a disobbedire alla legge e all'odio fra le classi è punita con la reclusione da 6 mesi a 5 anni; i promotori e capi dell'associazione per delinquere, composta da 3 o più persone, sono puniti con la reclusione da 3 a 7 anni, gli associati da 1 a 5 anni, quanti offrono loro assistenza fino a 2 anni di reclusione. Con la legge 13 settembre 1982, n. 646, è stata introdotta all'art. 416 bis del Codice Penale la fattispecie dell'associazione di tipo mafioso che si caratterizza per la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire la gestione o il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti. I promotori e capi dell'associazione sono puniti con la reclusione da 3 a 9 anni; gli associati da 3 a 6 anni. Nella legge “antimafia” (legge 31 maggio 1965, n. 575), più volte modificata e integrata (dalle leggi 13 settembre 1982, n. 646; 3 agosto 1988, n. 327; 4 agosto 1989, n. 282; 19 marzo 1990, n. 55; 7 agosto 1992, n. 356), sono previste importanti misure di prevenzione del fenomeno mafioso (sorveglianza speciale, divieto di soggiorno, obbligo di soggiorno, confisca dei beni sequestrati dei quali non sia dimostrata la legittima provenienza) applicabili agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, camorristiche o affini. Sempre sotto il titolo dell'ordine pubblico è stata emanata la legge “Reale” (legge 22 maggio 1975, n. 152) con il dichiarato scopo di fornire adeguati strumenti alle forze di polizia per combattere il terrorismo. Buona parte della sua articolata struttura è stata abrogata o modificata. In particolare, la legge 28 luglio 1984, n. 398, ha abolito l'art. 1 che recava precisi divieti alla facoltà dell'autorità giudiziaria di concedere la libertà provvisoria. Restano in vigore le disposizioni relative: a) all'art. 4 della legge che sancisce la facoltà “in casi eccezionali di necessità e di urgenza, che non consentono un tempestivo provvedimento dell'autorità giudiziaria”, per gli ufficiali e agenti della polizia giudiziaria e della forza pubblica che svolgano operazioni di polizia, di procedere all'immediata perquisizione sul posto “al solo fine di accertare l'eventuale possesso di armi, esplosivi e strumenti di effrazione”; b) all'ampliamento dei casi di legittimo uso delle armi da parte della forza pubblica non solo in presenza di una violenza attuale ma anche per impedire la consumazione di alcuni delitti contro l'incolumità pubblica, dell'omicidio volontario, della rapina a mano armata e del sequestro di persona; c) all'art. 16 relativo alla sospensione dei termini di decorrenza della prescrizione; d) all'estensione delle misure di prevenzione della legge antimafia anche ai soggetti sospetti di attentare alle istituzioni democratiche. Oltre a queste disposizioni si deve ricordare la legge 18 febbraio 1987, n. 34, che ha introdotto la riduzione della pena a favore di chi si dissocia dal terrorismo inaugurando il debutto dell'uscita dalla legislazione di urgenza emanata durante gli “anni di piombo”. Agli effetti della legge si considera condotta di dissociazione dal terrorismo il comportamento di chi, imputato o condannato per reati aventi finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale, ha definitivamente abbandonato l'organizzazione o il movimento terroristico o eversivo cui ha appartenuto ammettendo le attività svolte, comportandosi in modo incompatibile con il vincolo associativo e ripudiando la violenza come metodo della lotta politica. Della legge 6 febbraio 1980, n. 15, restano in vigore l'art. 1, che dispone per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico l'aumento della pena sino alla metà di essa, salvo nei casi in cui la circostanza della finalità sia elemento costitutivo del reato; e l'art. 5, che prevede fuori dei casi di desistenza volontaria una causa di non punibilità del colpevole di un delitto, commesso per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico, che volontariamente impedisce l'evento e fornisce elementi di prova determinanti per l'esatta ricostruzione del fatto e per l'individuazione degli eventuali concorrenti. La legge 25 gennaio 1982, n. 17, ha inoltre disposto la normativa di attuazione dell'art. 18 della Costituzione in materia di associazioni segrete. Sono considerate tali e quindi vietate dall'art. 18 della Costituzione, quelle che, anche all'interno delle associazioni palesi, occultando la loro esistenza ovvero tenendo segrete congiuntamente finalità e attività sociali ovvero rendendo sconosciuti i soci, svolgono attività diretta a interferire sull'esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche, di enti pubblici nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale. Chi promuove o dirige un'associazione segreta o svolge attività di proselitismo a favore della stessa è punito con la reclusione da 1 a 5 anni. Chi partecipa a un'associazione segreta è punito con la reclusione fino a 2 anni. Quando sia accertata con sentenza definitiva la costituzione di un'associazione segreta, il presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio stesso, ne ordina lo scioglimento con decreto e dispone la confisca dei beni. Con il decreto legge del 3 maggio 1991, n. 143, convertito nella legge 5 luglio 1991, n. 197, sono state adottate rilevanti disposizioni per limitare e per prevenire l'utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio del denaro di provenienza criminosa. È vietato pertanto il trasferimento di denaro contante o di titoli al portatore quando il valore da trasferire è complessivamente superiore a venti milioni di lire. Tale operazione può essere eseguita tramite gli intermediari abilitati (uffici della pubblica amministrazione, gli enti creditizi, le società di intermediazione mobiliare, gli agenti di cambio e altri stabiliti dalla legge). Per quanto riguarda l'impianto organizzativo delle strutture statali addette alla tutela dell'ordinamento democratico, la legge 12 ottobre 1982, n. 726 (modificata dalla legge 15 novembre 1988, n. 486), ha istituito la figura dell'Alto Commissario Antimafia per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa. Questi ha poteri delegati dal ministro dell'Interno in materia di coordinamento tra gli organi amministrativi di polizia; spetta a lui ogni altro potere attribuito all'autorità di pubblica sicurezza. Qualora insorga la necessità di verificare se ricorrano pericoli di infiltrazione da parte della delinquenza di tipo mafioso, all'Alto Commissario Antimafia sono attribuiti poteri di accesso e di accertamento presso le pubbliche amministrazioni, enti pubblici, banche e istituti affini che raccolgono il risparmio. Le imprese aggiudicatarie o partecipanti a gare pubbliche di appalto o trattativa privata sono tenute a fornire su richiesta dell'Alto Commissario Antimafia notizie di carattere organizzativo, finanziario e tecnico sulla propria attività. Con lo scopo di tamponare la recrudescenza della criminalità e di dare a questa un'adeguata risposta sotto il profilo organizzativo sono state emanate leggi finalizzate al coordinamento delle forze che lottano contro la criminalità organizzata per la tutela dell'ordine pubblico. Fra queste la legge 30 dicembre 1991, n. 410, che ha istituito presso il Ministero dell'Interno il Consiglio generale per la lotta alla criminalità organizzata presieduto dal ministro e composto: dal capo della Polizia, dal comandante generale dell'Arma dei carabinieri, dal comandante generale della Guardia di finanza, dall'Alto Commissario Antimafia, dal direttore del S.I.S.D.E. e dal direttore del S.I.S.M.I. L'art. 3 della legge ha istituito la Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.) che a decorrere dal 1º gennaio 1993 acquisirà anche l'esercizio delle funzioni ora proprie dell'Alto Commissario Antimafia. La legge 20 gennaio 1992, n. 8, ha istituito, nell'ambito della Procura generale presso la Corte di Cassazione, la Direzione Nazionale Antimafia (D.N.A.).
Diritto internazionale: ordine pubblico
Il richiamo del diritto straniero operato dalle norme di conflitto da applicarsi in presenza di un elemento di estraneità della causa (per l'ordinamento italiano gli articoli dal 16 al 31 delle disposizioni sulla legge, in generale “preleggi”) è talora ostacolato dal cosiddetto ordine pubblico. Invero, in base all'art. 31 delle preleggi, in nessun caso le leggi e gli altri atti di uno Stato estero possono avere effetto nel territorio dello Stato, quando siano contrari all'ordine pubblico. Tale principio normativo ha come effetto di escludere l'applicazione del diritto straniero richiamato. In questo caso il giudice italiano, verificata la contrarietà all'ordine pubblico interno della norma extranazionale, farà applicazione del diritto straniero richiamato modificandolo conformemente ai principi d'ordine pubblico del diritto nazionale o applicherà la legge nazionale del foro.
Diritto canonico
Gli ordini religiosi sono associazioni di cristiani che, proponendosi di seguire nella vita i consigli evangelici, si dedicano al Signore con i voti di castità, povertà e obbedienza. Si distinguono in due categorie: gli ordini, nei quali è prescritta la pronuncia dei voti solenni; le congregazioni, nelle quali i voti sono semplici (perpetui o temporanei). I religiosi che fanno parte di un ordine sono detti regolari; quelli di una congregazione sono religiosi a voti semplici. Oggi gli ordini hanno assunto forme più agili in rispondenza alle esigenze dell'apostolato moderno.
Economia
Nel linguaggio economico e commerciale, ordine di Borsa, quello mediante il quale si conferisce l'incarico di concludere operazioni nelle contrattazioni di Borsa; ordine limitato (d'acquisto o di vendita), dato a un agente di cambio con l'indicazione del prezzo minimo o massimo d'acquisto da non superare; ordine al meglio, da eseguire al prezzo più conveniente; ordine a discrezione, la cui esecuzione è lasciata al giudizio degli intermediari di Borsa; ordine di consegna (delivery order), emesso dal vettore (o dal suo agente) su richiesta del possessore della polizza di carico, indirizzato al capitano della nave perché consegni alla persona designata una o più parti del carico viaggiante; ordine di rilascio, documento che il vettore rilascia al ricevitore per permettergli di ritirare la merce; ordine in derrata; ordine di banca, trasmesso a una banca per l'acquisto o la vendita di divise estere su una o più piazze; ordine di accreditamento, sistema di pagamento usato per alcune spese dello Stato, attuato mediante un'apertura di credito presso un ufficio provinciale del Tesoro a favore di un funzionario che è autorizzato a disporre della somma. Lo stesso termine indica anche, nel linguaggio bancario, la disposizione con la quale si autorizza un corrispondente ad accreditare a un terzo una somma; ordine di riscossione, documento col quale il competente ufficio di un'azienda autorizza il tesoriere (in caso di azienda pubblica) o il cassiere (nel caso di azienda privata) a riscuotere una somma determinata da un soggetto in esso indicato; ordine di pagamento, documento col quale il tesoriere di un ente pubblico o il cassiere di un'azienda privata vengono autorizzati a versare una somma a una persona determinata; ordine di portafoglio, assegno emesso dal direttore generale del Tesoro su un conto corrente aperto presso la Tesoreria centrale per il pagamento delle rimesse sull'estero.
Filosofia
In senso generale una definizione dell'ordine è quella stoica, codificata da Cicerone come “la disposizione degli oggetti nei loro luoghi adatti e appropriati”; in senso stretto l'ordine può riferirsi a una relazione di causa ed effetto o delle parti con il tutto; oppure all'universo o a un singolo ente. Appunto il problema dell'ordine universale o cosmico è quello che per primo ha stimolato la riflessione filosofica: Eraclito parla del Logos come legge del mondo e del suo divenire, mentre Anassagora introduce per spiegare l'ordine cosmico il concetto di Nous o intelletto metafisico. Con Platone, il problema dell'ordine interessa i rapporti fra molteplicità e unità, le quali possono sussistere senza contraddirsi se il loro rapporto è fondato sulla norma, e cioè su di un ordine per cui il molteplice partecipa dell'uno. Aristotele distingue diversi tipi di ordine, secondo i diversi tipi di principi (intellettuali, causali, spaziali, ecc.), San Tommaso accetta i dati aristotelici, accentuando l'ordine del mondo creato. Quest'ordine che Dio impone alle cose è quello stesso che i filosofi del Rinascimento riconosceranno come interno alle cose, sicché Dio verrà a identificarsi con esso: si giunge così alle forme rigorose di panteismo di G. Bruno e di Spinoza. Il pensiero contemporaneo tende invece a una riduzione relativistica o soggettivistica del concetto: da parte neopositivistica si afferma che l'ordine è sempre e soltanto relativo alla composizione di un campo d'indagine; per gli esistenzialisti invece l'ordine risulta da un progetto del soggetto, essenzialmente condannato allo scacco.
Storia: istituzioni medievali
Nella società medievale, gli ordines erano i vari gruppi in cui era suddivisa la popolazione secondo le funzioni e i diritti e doveri spettanti a ognuno di essi. Ogni gruppo aveva un proprio ordinamento giuridico corrispondente alle mansioni che esercitava. Gli ordini erano tre: del clero, con funzioni religiose, di assistenza e di formazione intellettuale; della nobiltà, a cui competevano funzioni militari e politiche; dei mercanti e dei contadini, che dovevano attendere alle funzioni economiche. Quest'ultimo ordine però, in forza della differenza delle sue mansioni, diede origine al suo interno alla formazione di classi con la distinzione fra borghesi, contadini liberi e servi della gleba. Di conseguenza si perdette anche l'unità giuridica dell'ordine e si formò uno status giuridico diverso per ogni classe: la borghesia si organizzò in corpi particolari con prerogative e privilegi propri, mentre fra i contadini e i servi della gleba i doveri finirono con il prevalere sui diritti. Era possibile il passaggio da un ordine all'altro e in genere i primi due ordini attingevano elementi dal terzo ordine.
Sociologia
La teoria dell'ordine sociale – elaborata in analogia con le teorie dell'equilibrio biologico tramite evoluzione, sviluppate e divulgate dalla scuola positivistica dell'Ottocento – compare in diverse versioni nei fondatori della sociologia (A. Comte, H. Spencer, lo stesso E. Durkheim). Autori che – riflettendo sugli effetti della crisi dell'Ancien Régime e sulle conseguenze dell'industrializzazione, dell'urbanizzazione e dell'incipiente formarsi delle società di massa – si pongono tutti interrogativi sui destini dell'umanità priva di rassicuranti riferimenti ai poteri monocratici di diritto divino e all'apparente immobilità delle comunità tradizionali. Ripristinare l'ordine, nella sfera delle norme condivise e nel sistema politico, appare così in definitiva la preoccupazione principale di tutti i teorici postrivoluzionari, convinti che l'ordine rappresenti un valore in sé e una sorta di bene comune da preservare a qualunque costo. Viceversa, il coevo pensiero rivoluzionario (di cui è principale esponente K. Marx) afferma l'ordine come esito di un processo di scomposizione dei vecchi equilibri e di definizione di una nuova tavola di valori e considera la rivendicazione dell'ordine esistente come una difesa ideologica dei privilegi sociali della classe dominante. Fra queste due visioni politico-culturali trova spazio l'analisi sociologica dell'ordine come sistema, presente per esempio nell'opera di V. Pareto agli inizi del sec. XX e successivamente riproposta dalla scuola funzionalistica statunitense e in particolare da T. Parsons. Le nozioni di ordine e sistema – intrecciandosi a quella controversa di complessità – è anche alla base della ricerca di studiosi del mutamento sociale contemporaneo (E. Morin, N. Luhmann), influenzati dagli sviluppi dell'indagine cibernetica e biologica.

Palestina

Generalità
Regione storica dell'Asia occidentale. Affacciata al Mare Mediterraneo a W e al golfo di !Aqaba a S, è limitata dai contrafforti del Libano a N, dal Deserto Siriaco a E e dal Sinai a SW, comprende le regioni della Galilea, della Giudea e della Samaria che, prima dell'occupazione israeliana del 1967, appartenevano sia a Israele sia alla Giordania (per l'evoluzione della situazione politica, v. oltre). Il territorio, costituito dalla pianura costiera, da una regione mediana di alte terre e dalla fossa del Giordano a E, è caratterizzato da clima caldo e asciutto. L'agricoltura, la pastorizia e l'industria costituiscono le principali risorse economiche della popolazione. In greco, Palaistíne; in latino, Palaestina; in ebraico, Peleshet.
Preistoria
Il territorio tra il Mare Mediterraneo e la Valle del Giordano fu sicuramente abitato fin dai più antichi tempi: lo testimoniano, tra l'altro, i numerosi reperti litici e i resti scheletrici umani rinvenuti sia nelle grotte del monte Carmelo e in quelle di Umm Qatafa, sia in stazioni preistoriche all'aperto come quelle di Ubeidyia a sud del lago di Tiberiade. Dopo il periodo di transizione, in cui si sviluppò la cultura mesolitica natufiana, anche la fascia costiera palestinese venne a trovarsi nella sfera d'influenza delle grandi culture neolitiche del Vicino Oriente.
Storia
Anteriormente alla conquista ebraica, la regione era nota come Terra di Canaan. Fu poi chiamata Israele e soltanto in età ellenistica assunse il nome di Sirya Palaestina da cui deriva l'attuale denominazione. Durante il III e il II millennio a. C. la Palestina fu controllata più o meno direttamente dai faraoni egiziani. Verso la fine del II millennio fu conquistata dagli Ebrei: il culmine della potenza ebraica fu raggiunto sotto Salomone (ca. 961-922 a. C.). A partire dal sec. VIII la Palestina entrò nell'orbita mesopotamica: gli Assiri, i Babilonesi e i Persiani la inclusero nei loro imperi. Soggiogata da Alessandro nel 320, fu poi oggetto di contese tra i diadochi. Quasi indipendente sotto i Maccabei e i loro successori (sec. II), nel 63 a. C. fu inclusa nella sfera d'influenza romana. Le rivolte ebraiche del 66-70 d. C. e del 132-135 furono represse dai Romani e diedero luogo alla diaspora definitiva del popolo ebraico. Nel sec. IV la Palestina divenne una provincia dell'Impero bizantino, che la conservò, se si esclude una parentesi sassanide nel 611-628, fino al 634, anno della conquista araba. Nel sec. X la crisi dell'Impero abbasside consegnò la Palestina nelle mani dei sultani egiziani. La I crociata (1096-99) condusse alla creazione di un regno latino di Gerusalemme che sopravvisse per quasi un secolo. Nel sec. XIII la regione fu saccheggiata da Mongoli e Tartari. Dopo la caduta di Acri (1291), ultimo ridotto franco, la Palestina rientrò nell'orbita egiziana. Nel 1516 fu conquistata dagli Ottomani, il cui dominio, interrotto da una parentesi egiziana (1831-40), si prolungò fino al 1918. Dopo essere stata occupata dalle truppe inglesi, fu affidata dalla Società delle Nazioni in mandato alla Gran Bretagna (1922), la quale, anche per effetto della crescente migrazione ebraica verso la Palestina e grazie alla trasformazione dell'Organizzazione sionistica in Agenzia Ebraica (1922), si assunse l'onere di “stabilire nel Paese uno stato di cose politico, amministrativo ed economico che potesse assicurare l'istituzione del Focolare Nazionale ebraico”, senza tuttavia “pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche”. Nel 1922 il memorandum Churchill escluse la possibilità che ciò comportasse la creazione di una Palestina interamente ebraica. Ma tali assicurazioni non convinsero i nazionalisti arabi che rifiutarono, diversamente dagli Ebrei, di collaborare con la potenza mandataria. L'ostilità degli Arabi nei confronti degli Inglesi e degli Ebrei, che avevano rapidamente incrementato il loro numero e il loro impatto sulla regione, culminò nella rivolta del 1936-39. In Gran Bretagna prevalse allora l'idea, consegnata a un libro bianco, di erigere uno Stato palestinese binazionale in seno al quale gli Arabi sarebbero rimasti la comunità maggioritaria. Il progetto fu respinto dagli Arabi e, ancor più fermamente, dagli Ebrei. Nell'aprile 1947 Londra, che non gradiva le pressioni di Washington a favore dei sionisti, deferì la questione palestinese all'ONU. A New York ci si pronunciò a favore di un piano che comportava la fondazione di due Stati indipendenti, uno arabo ed uno ebraico, e l'internazionalizzazione di Gerusalemme e di Betlemme. Il 14 maggio 1948, mentre gli Inglesi lasciavano la Palestina, nacque Israele. In assenza di una mediazione armata, Arabi ed Ebrei (i primi aiutati dagli eserciti dei Paesi arabi confinanti) si affrontarono senza esclusione di colpi. La vittoria arrise agli Ebrei, che si assicurarono alcune tra le aree che avrebbero dovuto far parte dello Stato arabo. Del resto quest'ultimo rimase sulla carta: la striscia di Gaza fu occupata dagli Egiziani, mentre la Cisgiordania fu definitivamente annessa alla Giordania nel 1949. L'esodo di centinaia di migliaia di profughi aggravò ulteriormente la questione palestinese. Un vero e proprio rilancio del problema si ebbe nel 1964 con la fondazione dell'OLP. La guerra arabo-israeliana del 1967 condusse gli Israeliani all'occupazione della Cisgiordania e di Gaza: una situazione territoriale non modificata dalla guerra del 1973 e anzi inaspritasi dopo l'annessione nel dicembre del 1981 delle Alture di Golan. I guerriglieri palestinesi ebbero le loro basi principali nella Giordania fino al 1970-71 e successivamente in Siria e nel Libano meridionale. Quest'ultimo, divenuto roccaforte della resistenza palestinese, venne invaso nel giugno del 1982 dalle truppe israeliane e, dopo due mesi di combattimenti, i guerriglieri palestinesi vennero fatti evacuare dalla capitale libanese. L'OLP stabilì il suo quartier generale a Tunisi, ma la lontananza dalla Palestina e le continue ingerenze di alcuni Paesi arabi che fomentavano le varie formazioni palestinesi ne indebolirono l'azione. L'offensiva diplomatica di Y. !Arafat, capo dell'OLP, che prendeva nettamente le distanze dal terrorismo e da ogni azione armata condotta fuori dei territori occupati, nonché l'implicito riconoscimento all'esistenza dello Stato di Israele rilanciarono il ruolo dell'organizzazione. L'esplosione dell'Intifada (1987), infine, ristabilì un rapporto diretto con la popolazione palestinese e favorì una ripresa dell'iniziativa politica interna e internazionale che portò alla proclamazione di uno Stato indipendente di Palestina (Algeri, 1988) e aprì una nuova fase, rafforzata anche dalla diversa posizione dei Paesi arabi in occasione della guerra del Golfo (1991). Ciò consentì alla diplomazia internazionale di spingere verso una soluzione negoziale del problema palestinese determinando l'apertura (Madrid, 1991) di trattative dirette tra Arabi, Israeliani, Palestinesi. Queste, proseguite pur tra molte difficoltà, sfociavano nel 1993 nello storico, reciproco riconoscimento di Israele e OLP (considerato l'unico legittimo rappresentante dello Stato palestinese) e nell'accordo, siglato a Washington il 13 settembre da ‘Arafat e dal premier israeliano Rabin, per la concessione dell'autonomia a Gaza e Gerico. Le forti opposizioni manifestatesi, anche con attentati, da parte degli estremisti israeliani, e dei fondamentalisti palestinesi di Hamas, non interrompevano il processo di pace: un ulteriore accordo siglato al Cairo tra !Arafat e Rabin nel maggio 1994 stabiliva il ritiro israeliano da Gaza e Gerico e il passaggio di questi territori sotto il controllo della polizia palestinese. Era questo il primo di una serie di accordi bilaterali che, benché dagli esiti incerti, avevano lo scopo di estendere l'autonomia anche ad altri territori sotto controllo israeliano. Nell’agosto 1995 il ministro degli Esteri israeliano Peres ed ‘Arafat sottoscrivevano, con la cosiddetta Dichiarazione di Taba, un accordo provvisorio in vista dell’organizzazione di elezioni di un consiglio palestinese con funzioni legislative ed esecutive e del passaggio ai Palestinesi dell’autorità civile esercitata da Israele sui territori occupati. In novembre il premier israeliano Rabin veniva però assassinato da un estremista israeliano ed era sostituito provvisoriamente da Peres. In dicembre Israele consegnava ai Palestinesi la città di Ramallah, dando così completa attuazione alla prima fase della restituzione dei territori occupati prevista dagli accordi di agosto. Nel gennaio 1996 i Palestinesi di Gerusalemme Est, Gaza e Cisgiordania eleggevano il Consiglio dell’Autonomia; la maggioranza dei seggi andava ai candidati vicini alle posizioni di ‘Arafat che veniva contestualmente eletto alla presidenza dell’assemblea. Ma le elezioni israeliane del maggio 1996, vinte dal Likud, sancivano un arresto delle trattative. Nonostante questo, nel gennaio 1997 veniva firmato l’accordo per lo sgombero delle truppe di Israele dalla città di Hebron e confermato il ritiro dell’esercito dalla Cisgiordania. Ma per risolvere i problemi di malcontento all’interno della maggioranza, il premier israeliano Netanyahu dava il via libera a un nuovo insediamento di coloni nella zona araba di Gerusalemme. La tensione tornava quindi a salire e alimentava la mobilitazione di massa dei Palestinesi. Inoltre, la ripetuta chiusura dei territori palestinesi da parte del governo israeliano determinava un ulteriore deterioramento delle condizioni di vita della popolazione palestinese. In particolare, le sempre più numerose restrizioni all’afflusso in Israele di lavoratori palestinesi (sostituiti in gran parte da immigrati provenienti da altri Paesi) incidevano pesantemente sui redditi delle famiglie residenti in Cisgiordania e Gaza. Lo stallo in cui si veniva a trovare il processo di pace, accompagnato da una crescita dell'opposizione islamica, espressa in particolare da Hamas, sembrava superato a ottobre con la firma da parte di ‘Arafat e Netanyahu del “Memorandum di Wye”, un nuovo accordo che prevedeva: per la Cisgiordania, il ritiro delle truppe israeliane dal 13,1 % del territorio e il passaggio del 14,2 % del territorio, amministrato dai Palestinesi ma sotto la sorveglianza israeliana, sotto il controllo esclusivo dei Palestinesi; l’impegno, da parte israeliana, a concedere la libertà a 750 prigionieri palestinesi e ad attuare una terza fase del ritiro delle truppe dalla Cisgiordania; l’impegno, da parte palestinese, a convocare il Consiglio Nazionale per l’abrogazione della clausola dello statuto che chiedeva la distruzione dello Stato di Israele, a disarmare i gruppi estremisti e ad arrestare 30 terroristi; l’apertura di due corridoi in Israele per collegare i territori palestinesi in Cisgiordania a quelli di Gaza; l’apertura di un aeroporto palestinese a Gaza. Nel febbraio 2000, nel corso di una visita di ‘Arafat in Vaticano, veniva siglata una “Dichiarazione di principi” destinata a definire i rapporti diplomatici fra Palestina e Santa Sede. Nel luglio 2000, i negoziati indetti a Camp David dal presidente degli Stati Uniti Clinton, al fine di elaborare un piano di pace tra Israeliani e Palestinesi, avevano esito negativo per le divergenze emerse tra il premier israeliano Barak e ‘Arafat sulla questione dello statuto da attribuire a Gerusalemme Est. Nel settembre dello stesso anno, la provocatoria visita del leader della destra israeliana, A. Sharon, alla spianata delle Moschee di Gerusalemme innescava una nuova Intifada nei territori palestinesi e una violenta ripresa del terrorismo antisraeliano. Lo stesso Sharon, divenuto primo ministro d'Israele nel febbraio 2001 rendeva, con la sua intransigenza, ancor più difficile la ripresa dei negoziati di pace, consentendo così alle ali più estremiste del movimento palestinese di porre in crisi la leadership moderata di ‘Arafat, già in difficoltà nel controllare gli attivisti islamici. La situazione peggiorava ulteriormente nei mesi successivi (gli Israeliani facevano in modo che, per lungo tempo, ‘Arafat fosse di fatto impossibilitato a lasciare la città di Ramallah) e precipitava nel marzo 2002, con l'intervento delle truppe israeliane in Cisgiordania, che si concludeva nel maggio seguente, senza però che si intravvedessero sbocchi per la risoluzione della crisi. Pur in questa difficile situazione, sempre nel mese di maggio, veniva promulgata la Costituzione palestinese, che era stata approvata dal Consiglio legislativo nel 1997.
Letteratura
Si può parlare di una narrativa palestinese già a partire dal 1920, quando Khalil Baydas pubblicò il romanzo al-Warith (L'erede) sull'attaccamento del contadino arabo alla sua terra. Nel 1946 Ishàq Musà al-Husaini scrisse un romanzo allegorico sull'immigrazione ebraica in Palestina, Mudhakkirat dagiagia (Memorie di una gallina). Per la poesia emerge il nome di Ibrahim Tuqan (m. 1941), fratello della poetessa Fadwà Tuqan (n. 1917). Dopo il 1948 e soprattutto dopo il 1967 la produzione letteraria palestinese è sempre più legata alle vicende storico-politiche della regione. Da una parte ci sono scrittori e poeti palestinesi rimasti in patria e diventati cittadini d'Israele; dall'altra quelli della “diaspora”, disseminati per la maggior parte in altri Paesi arabi. Non sorprende una certa ripetitività delle tematiche, un esasperato desiderio di far conoscere attraverso la letteratura la storia dei Palestinesi. All'inizio degli anni Sessanta si impongono poeti come Mahmud Darwish (n. 1941), Samih al-Qasim (n. 1939), Tawfiq Zayyad (n. 1929), le cui liriche vengono tradotte in molte lingue. Capolavoro della narrativa palestinese è considerato Rigal fi sams (Uomini sotto il sole, 1963; pubblicato in Italia nel 1991) di Ghassan Kanafani (1936-1972), ma è altrettanto noto anche fuori del mondo arabo il romanzo satirico al-Mutasha'il (Il Pessottimista) di Emil Habibi (1922-1996), scrittore arabo d'Israele, molto contestato in alcuni ambienti arabi. Tra i letterati palestinesi va ricordato Giabra Ibrahim Giabra (1919-1994), trasferitosi dal 1948 in Iraq, autore di romanzi come as-Safinah (La nave) e al-Bahth !an Walid Mas!ud (La ricerca di Walid Mas!ud), tradotti in molte lingue. Ancora più problematica e più attaccata alla realtà politica della propria terra è la produzione letteraria degli scrittori dei territori occupati, che trova una delle sue più significative rappresentanti in Sahar Khalifa (n. 1941), la cui opera maggiore, Dikra li ‘l-nisyan (Una memoria per l’oblio) del 1987, è stata tradotta in Italia nel 1997; la scrittrice, in alcuni suoi romanzi, descrive l’atrocità degli attentati e affronta il tema della lotta nazionale rispetto alla condizione femminile (Bab al-Saha, 1971; La porta della piazza, 1994). Vanno ricordate infine la scrittrice Basima Halawa (1949-1979), autrice di novelle, e Akram Haniyya (n. 1953), che permea i suoi racconti di un’atmosfera surrealistico-metafisica.

Spagna (Stato)


Generalità
(Reino de España). Stato dell'Europa sudoccidentale , che forma col Portogallo la Penisola Iberica; affacciato a NW e SW all'Oceano Atlantico, a SE e a E al Mediterraneo, confina a W con il Portogallo, a NE con la Francia (gli arcipelaghi delle Baleari e delle Canarie appartengono alla Spagna, di cui sono amministrativamente tre province, rispettivamente dal sec. XIV e dal XV) . La Spagna è tra le più antiche e solide unità politiche d'Europa: la sua formazione risale infatti al sec. XV, dopo l'espulsione degli Arabi dal suolo iberico, e si colloca storicamente in quel momento che vide l'affermazione della cultura europea, con lo spostamento dei suoi centri di elaborazione e di potere dal Mediterraneo, erede delle antiche tradizioni classiche e cristiane, all'Europa atlantica e settentrionale. La Spagna è stata la grande interprete della fase con la quale il continente si aprì a intense relazioni col resto del mondo e vide l'imporsi di un'economia vivacizzata da nuovi traffici commerciali. A questo ruolo storico così importante la Spagna è stata chiamata dalla sua particolare posizione tra Mediterraneo e Atlantico, grazie alla quale essa ha potuto mantenersi sempre intimamente legata all'Europa, di cui fu anzi arbitra per un certo periodo, e al tempo stesso aprirsi a quelle conquiste d'oltremare che sono state alla base della sua potenza. Le vicende dei secoli passati hanno contribuito a conferire unità al Paese, che è anche in larga parte convalidata dalla morfologia stessa del territorio; tuttavia il fatto di collocarsi tra Atlantico e Mediterraneo e di avere alcune regioni periferiche ben distinte è alla base di un certo regionalismo che in particolari fasi storiche si è manifestato con rivendicazioni autonomistiche particolarmente tenaci in prossimità dell'area pirenaica (Paesi Baschi, Catalogna), la meno partecipe delle grandi esperienze peculiari del Paese. Sull'eredità del suo glorioso passato la Spagna è vissuta a lungo, collocandosi sempre più tuttavia “alla periferia” dell'Europa, posizione che essa ha espresso nei quarant'anni di “franchismo”, bloccando l'evoluzione in senso europeo del Paese, che pure ha registrato rilevanti progressi economici, avvenuti tuttavia a costo di gravi squilibri sociali e territoriali. Dopo la caduta del regime, la Spagna ha volto decisamente le spalle al passato stringendo solidi rapporti con il resto d'Europa, e accettando i necessari allineamenti socio-economici e politici che ciò comporta.
Lo Stato
Dopo la caduta del franchismo, la vita istituzionale del Paese ha conosciuto radicali cambiamenti. Posto termine alla lunghissima dittatura, nella quale l'attività legislativa era nominalmente demandata a un Parlamento unicamerale, a struttura corporativa e in pratica con poteri molto limitati, la Spagna si è impegnata in una radicale trasformazione in senso democratico delle istituzioni dello Stato. Tale opera è culminata nella promulgazione della Costituzione del dicembre 1978, in base alla quale la Spagna è una monarchia costituzionale ereditaria. Capo dello Stato è il sovrano, massimo rappresentante dello Stato nelle relazioni internazionali, nonché capo delle Forze armate. Il potere esecutivo spetta al capo del governo (che viene eletto dal Congresso dei deputati su designazione del sovrano) e dai vari ministri che formano il governo; il potere legislativo è esercitato dal Parlamento (Cortes), bicamerale e formato dal Congresso dei deputati e dal Senato, entrambi eletti a suffragio universale e diretto per 4 anni. Il Congresso dei deputati consta di 350 membri, eletti su base proporzionale; il Senato ne annovera 254, di cui 208 a elezione diretta, mentre i restanti 46 sono scelti dalle assemblee delle regioni autonome. Inoltre nel settembre 1977 la regione della Catalogna ha ottenuto l'autonomia interna, seguita dai Paesi Baschi (ottobre 1979), dalla Galizia (dicembre 1980), dall'Andalusia (ottobre 1981) e successivamente (maggio 1983) dalle altre 13 regioni. Amministrativamente la Spagna continentale, che si estende per 493.515 km2, è divisa in 47 province raggruppate in regioni autonome, con capitale Madrid; se si comprendono anche le due province delle Canarie e quella delle Baleari (in totale quindi 50 province) si raggiungono i 505.954 km2 e una popolazione di 39.630.000 (stima 2000) abitanti. Lingua ufficiale è lo spagnolo (castigliano) parlato abitualmente dai 3/4 della popolazione; lingue nazionali sono il gallego (o galiziano), il catalano e il basco, o euskera. La religione cattolica (che ai sensi della Costituzione del 1978 ha cessato di essere religione di Stato) è professata dalla quasi totalità della popolazione; si hanno inoltre minoranze di protestanti, ebrei e musulmani. L'indice di sviluppo umano (ISU) è 0,899 e pone il Paese al 21° posto nella graduatoria mondiale.
Geomorfologia: confini e vicende geologiche
La Spagna occupa l'85% della Penisola Iberica e quindi le sue frontiere, a parte il lato occidentale corrispondente al confine col Portogallo (1232 km), coincidono per gran parte col contorno della penisola. Esse sono per 3904 km marittime, mentre i Pirenei formano un elemento divisorio naturale non facilmente penetrabile. Nonostante sia bagnata per così lungo tratto dal mare, la Spagna non è molto aperta verso l'esterno: solo la Pianura Betica (o del Guadalquivir) unisce direttamente le coste all'interno, e non a caso essa fu la prima terra di conquista e di penetrazione arabe; ma altrove le coste mancano di facili legami con l'interno. Il territorio spagnolo rientra per gran parte nell'Europa dei suoli antichi, paleozoici, e si presenta morfologicamente come una successione di ampi tavolati e di aree moderatamente elevate; tuttavia nella sezione marginale nordorientale la Spagna comprende il versante meridionale dei Pirenei, a S include la Cordigliera Betica: due aree appartenenti geologicamente all'Europa giovane, cenozoica, formatasi cioè con l'orogenesi alpino-himalayana. I rilievi antichi corrispondono sostanzialmente al Massiccio Galaico, al Sistema Centrale (o Cordigliera Centrale) e alla Meseta (propr., tavolato); emersero nell'era paleozoica, a seguito di quei moti ercinici che hanno sottoposto in molti punti la crosta terrestre a tutta una serie di sollevamenti e di immersioni. Nell'era mesozoica il territorio subì invasioni più o meno ampie da parte del mare; successivamente ebbero origine quell'emersione generale e quei moti tettonici, connessi con l'orogenesi alpina, che diedero l'assestamento definitivo al Paese. I contraccolpi di questi fenomeni orogenetici causarono profonde fratture nella Meseta, la inclinarono verso W e ne sollevarono i bordi: a S aveva così origine la Sierra Morena, a E il Sistema Iberico, mentre a N il corrugamento dell'altopiano avveniva gradualmente verso le pendici delle catene costiere atlantiche, tra cui spicca la Cordigliera Cantabrica. Si aprirono anche le due grandi depressioni, colmate da sedimenti cenozoici e neozoici, a N quella aragonese, bagnata dall'Ebro, a S quella andalusa, percorsa dal Guadalquivir, e prendeva forma lo stretto di Gibilterra, separando così la Spagna dal Marocco. Nell'era neozoica, movimenti sismici ed eruzioni vulcaniche, unitamente ai fattori esogeni d'erosione, finirono col dare all'ormai formato territorio l'aspetto che più o meno ha ancora oggi; la glaciazione interessò in genere i rilievi più elevati.
Geomorfologia: caratteristiche essenziali
Le linee essenziali della morfologia spagnola, uscita da siffatte vicende geologiche, sono così caratterizzate dall'esistenza di un altopiano interno e da una serie di rilievi tutti diretti prevalentemente da E a W che l'attraversano nella parte centrale e che lo chiudono ai bordi settentrionale, orientale e meridionale: solo a W è aperto verso il Portogallo. Buona parte del territorio spagnolo è costituita pertanto dalla Meseta, nella quale impropriamente si distinguono una Meseta (o Submeseta) settentrionale e una Meseta meridionale, che corrispondono grosso modo alle regioni storiche della Vecchia e della Nuova Castiglia, separate dalle sierre (Guadarrama, Gredos, Gata) del Sistema (Cordigliera) Centrale, pilastro tettonico (Horst) sollevato per effetto dell'orogenesi alpina, che nella Sierra de Gredos tocca i 2592 metri. Che si tratti in realtà di un solo elemento originario è dimostrato dall'uniformità strutturale dello zoccolo paleozoico, che quando affiora si palesa col grigiore dei graniti e dei gneiss, ma per la massima parte è ricoperto da strati più recenti, dovuti in alcuni casi a fenomeni di ingressione marina, in altri a sedimentazioni fluviali; comunque sia, il terreno della Meseta, che raggiunge un'altitudine media di 600-1000 m e si presenta nella parte meridionale meno elevato che al nord, è in genere argilloso e arido. L'estremo lembo nordoccidentale del Paese termina col Massiccio Galaico, lembo dello zoccolo paleozoico variamente fratturato e in genere di modesta altitudine; benché geologicamente non possa venir disgiunto dalla massa della Meseta, di cui costituisce una regione periferica, quanto ad aspetto il verde paesaggio della Galizia non ha nulla di comune con la polverosa steppa castigliana. La Cordigliera Cantabrica, talora piuttosto elevata includendo i Picos de Europa (2648 m), massime cime della regione asturiano-basca, sottolinea il margine settentrionale della Meseta; malgrado appaia come un prolungamento occidentale dei Pirenei, essa ha una più complessa storia geologica. Mentre infatti il settore orientale è d'origine cenozoica, come i Pirenei, quello occidentale è costituito da materiali paleozoici fortemente piegati, formanti il vero orlo rialzato della Meseta. La Cordigliera Cantabrica incombe sulla costa atlantica con un versante ripido, determinandone la morfologia priva di pianure costiere e caratterizzata da penetrazioni profonde (coste a rías) che assumono qui, per genesi e morfologia, aspetti esemplari. La Cordigliera Cantabrica è talora aspra ma ha numerosi e non difficili valichi che spiegano la valorizzazione dei porti atlantici, così importanti nell'espansione spagnola d'oltreoceano. Il limite orientale dell'altopiano è segnato dal Sistema Iberico, un complesso allineamento di catene spesso discontinue, con strati paleozoici ricoperti da sedimenti mesozoici di potenza crescente col procedere verso E; supera in vari punti i 2000 m, toccando i 2313 m nella Sierra del Moncayo. Infine il margine meridionale dello zoccolo della Meseta, fortemente fratturato dalla grande faglia del Guadalquivir, è dato dalla Sierra Morena (1323 m) che, con forti dislivelli scavati dall'erosione, precipita, a guisa di grande muraglia, sulla sottostante piana andalusa. La depressione del Guadalquivir separa così la regione della Meseta dal Sistema Betico – assai complesso quanto a struttura – che tocca le maggiori altezze nella Sierra Nevada, con nevai presenti per gran parte dell'anno sulle cime che oltrepassano numerose i 3000 m: è qui anzi la massima vetta del Paese, il monte Mulhacén (3478 m). Ad altitudini piuttosto elevate giungono anche i Pirenei (Pico de Aneto, 3404 m), distesi per oltre 400 km dall'Atlantico al Mediterraneo, a guisa di possente barriera, dalla morfologia spesso glaciale, meno ardita ma più impervia e compatta di quella alpina: la catena è infatti scarsamente interessata da valli trasversali e i passi più transitabili sono ai margini, dove i Pirenei si abbassano. In un complesso tanto imponente di alte terre, ben poco spazio hanno le pianure, limitate in genere a brevi tratti litoranei. Quanto alla depressione dell'Ebro, incassata fra i declivi degli opposti sistemi montuosi, il paesaggio, limitato verso il mare dal Sistema Prelitoraneo Catalano (Catena Costiera Catalana), appare più collinare che pianeggiante e la pianura vera e propria acquista ampiezza soltanto presso la confluenza del Segre e in prossimità del delta dell'Ebro. È nella depressione andalusa, racchiusa fra i bordi scoscesi della Sierra Morena e del Sistema Betico, che si estende l'unica grande pianura spagnola, ricoperta da terreni in prevalenza marini e ampiamente aperta (con i suoi campi di cereali, le piantagioni di leguminose, i bei vigneti, aranceti e oliveti) verso il golfo di Cádice. Allargata a triangolo verso l'Atlantico, ha un'altitudine sovente inferiore ai 200 m, formando nella sezione terminale una perfetta pianura sedimentaria, che il cordone delle dune sabbiose protegge dall'oceano. Alla compattezza della struttura orografica corrispondono anche sia la scarsa insularità (uniche isole di rilievo sono le Baleari) sia la limitata articolazione delle coste, il cui sviluppo totale è di appena 3904 km: ampie regioni interne rimangono lontane dal mare, con il quale comunicano piuttosto difficilmente. I rilievi marginali rendono tuttavia varia la morfologia costiera, alternando tratti di costa alta e rocciosa (rías, falesie) a tratti aperti con lagune (albuferas) e dune sabbiose (arenas gordas).
Idrografia
Nel complesso la Spagna non è povera di corsi d'acqua, ma la rete idrografica è piuttosto disorganica. Essa si articola in cinque principali fiumi: quattro di essi, il Tago, il Duero, il Guadalquivir e il Guadiana, seguendo la naturale inclinazione verso W della Meseta, si rivolgono all'Atlantico, svolgendo tutti (Guadalquivir escluso) il loro tratto inferiore in territorio portoghese; l'Ebro invece sviluppa il suo corso tra il Sistema Iberico e i Pirenei, sfociando nel Mare Mediterraneo. I fiumi atlantici presentano generalmente un profilo accidentato, costretti come sono a scavarsi letti profondi e a scendere ripidamente a gradini dagli altopiani interni alle pianure costiere; hanno inoltre una portata piuttosto ridotta, in conformità alle modeste precipitazioni caratteristiche di vaste aree della penisola e alla scarsità del manto nevoso e dei ghiacciai, cui si aggiunge l'intensa evaporazione. Solo due corsi d'acqua hanno una portata importante: il Duero e il Guadalquivir; in ambedue i casi si tratta di assi fluviali che ricevono, tramite una parte dei loro affluenti, notevoli apporti di acque. Il bacino del Duero è il più esteso del Paese (oltre 98.375 km2) e corrisponde infatti quasi esattamente a tutta la Meseta settentrionale; nato dal Sistema Iberico, riceve buoni apporti dal settore di Trás-os-Montes (Portogallo), dalla Cordigliera Cantabrica e dal Sistema Centrale. Il Guadalquivir, il cui bacino corrisponde approssimativamente alla depressione omonima, dispone dell'apporto degli affluenti della Sierra Morena e del Sistema Betico, e, grazie al suo regime regolare, è assai importante agli effetti dell'irrigazione e della navigabilità. Portata minore e regime piuttosto irregolare presenta il Tago (benché con i suoi 1007 km di corso sia il più lungo dei fiumi iberici), alimentato dagli affluenti soprattutto del Sistema Centrale. Il meno rilevante dei cinque fiumi iberici è il Guadiana, che ha scarsi apporti da parte degli affluenti che scendono da catene aride e poco elevate e che, al pari del Tago, attraversa ampie aree siccitose della Meseta meridionale. Nel versante mediterraneo il fiume più importante è l'Ebro, il massimo interamente spagnolo, che, nato dalla Cordigliera Cantabrica, raccoglie le acque del versante pirenaico meridionale e di quello settentrionale del Sistema Iberico; esso percorre l'Aragona, irrigando e attraversando un territorio steppico che contribuisce largamente a limitarne la portata, e dopo essersi snodato in una fitta serie di meandri si apre faticosamente il passo attraverso il Sistema Prelitoraneo Catalano per sfociare a S di Tarragona con un vasto delta dalla caratteristica forma lanceolata. Gli altri fiumi tributari del Mediterraneo (Segura, Júcar), contraddistinti da corsi brevi e tumultuosi (ramblas) e soggetti a piene improvvise e rovinose, hanno una dimensione regionale limitata. Numerosi sono gli sbarramenti costruiti sui fiumi spagnoli; i maggiori bacini si trovano sui corsi del Duero, del Guadiana, del Guadalquivir, del Tago. Clima
Dal punto di vista climatico la Spagna, data la sua posizione tra Atlantico e Mediterraneo, dipende fondamentalmente dalla penetrazione delle masse d'aria umide d'origine atlantica e dallo stabilirsi, più o meno prolungato e tenace, delle masse d'aria anticicloniche mediterranee. Le prime investono con particolare frequenza la facciata settentrionale della penisola, che è di gran lunga la più piovosa; le masse d'aria anticicloniche predominano sulla parte centrale e mediterranea, specie durante l'estate, che è sempre siccitosa e molto calda: le precipitazioni su tutta la Spagna sono infatti prevalentemente invernali e primaverili. Tuttavia, benché il territorio sia quasi completamente circondato dal mare, per la disposizione dei rilievi, spesso direttamente allineati lungo le coste, e la forma tozza della penisola, le terre dell'interno restano al margine delle influenze marittime, per cui si può parlare di clima continentale per quasi tutto il Paese, in particolare per la Meseta, la depressione iberica e l'area più interna di quella andalusa. Nella fascia settentrionale del Paese, interessata dal frequente passaggio dei cicloni atlantici, cadono in media annualmente 1000 mm di pioggia, distribuiti con una certa regolarità nell'arco annuale; sui versanti cantabrici e pirenaici esposti all'oceano, le precipitazioni possono superare i 1500 e talora i 2000 mm annui: la Galizia per esempio ha clima prettamente atlantico, umido tutto l'anno. La Spagna centrale e la regione mediterranea sono sempre siccitose; in genere i valori di piovosità sono inferiori ai 500-600 mm annui, con minimi anche di 200-300 mm annui, concentrati nel periodo invernale, nelle depressioni più interne, in particolare nella Mancha, nelle valli dell'Ebro e del Guadalquivir e nell'estremo lembo sudorientale. Anche dal punto di vista termico vi sono differenze rilevanti passando dalle zone costiere atlantiche, dove le temperature sono mitigate per gli influssi atlantici sia d'inverno (8-10 ºC) sia d'estate (18-20 ºC), a quelle interne, caratterizzate dalle marcate escursioni termiche tipiche dei climi continentali: a Madrid dai 5 ºC di gennaio si sale ai 24 ºC di luglio, con pochi giorni di gelo. Nella costa mediterranea, soleggiata, si hanno estati calde ma non eccessive, grazie alla presenza del mare, e inverni addolciti dai venti mediterranei (a Valencia 11 ºC in gennaio, 24 ºC in luglio); la depressione andalusa invece ha caratteristiche climatiche che già preannunciano la vicina Africa. Il clima fresco e umido della fascia atlantica è all'origine della foresta a latifoglie e dei buoni pascoli che inverdiscono i paesaggi della Galizia; il bosco di latifoglie, ancora rappresentato da lembi consistenti, comprende tutte le specie diffuse nell'Europa nordatlantica, in particolare la quercia e il faggio. Sui rilievi, specie su quelli pirenaici, attecchiscono abeti e pini. Del tutto diverso – ma più peculiarmente spagnolo – appare il paesaggio vegetale nella Meseta, dove, accanto a specie arboree temperate, si ritrovano forme vegetali proprie dell'ambiente arido subtropicale come la macchia arbustiva (monte bajo), talora con associazioni tipicamente steppiche, fra le quali predominano l'alfa, lo sparto e l'artemisia: nella valle dell'Ebro non mancano accenni al subdeserto, ma ovunque l'aspetto estivo della Meseta è quello di una terra semiarida, steppica, con terreni rossicci per le alterazioni dei suoli calcarei, oasi di pioppi o di vegetazione riparia lungo i solchi fluviali. La regione mediterranea è dominata dalla macchia (rosmarino, timo, lavanda ecc.) e da specie arboree come l'olivo, il carrubo e la quercia da sughero; sulle pianure costiere, rigogliose oasi irrigue, le huertas avviate dagli Arabi, costituiscono una nota caratteristica della Spagna mediterranea. È da dire però che ovunque il territorio è stato profondamente alterato dall'opera dell'uomo; il paesaggio agrario si è soprattutto imposto su quello naturale nella cosiddetta “Spagna arida”.
Geografia umana: il movimento demografico e migratorio
Il Paese fu abitato fin dai tempi più remoti da popolazioni che lasciarono varie tracce della loro civiltà: delle più antiche popolazioni della penisola i Baschi sembrano essere la più diretta testimonianza, conservatasi nelle zone-rifugio dei Pirenei. Più tardi il lungo dominio di Roma contribuì a unificare il Paese; si realizzarono notevoli progressi in campo economico, che furono alla base dell'ingente aumento demografico, grazie al quale la popolazione, già nell'età di Augusto, si stima raggiungesse i 6 milioni di ab., massimamente addensata nella valle del Guadalquivir e nelle pianure costiere orientali. Le invasioni barbariche rimossero per gran parte il tessuto già costruito e causarono un significativo processo di ruralizzazione, con progressiva decadenza dei nuclei urbani, commerciali e artigiani, e con conseguente declino demografico, specie nelle regioni che durante l'Impero romano erano state più fiorenti. Tale processo di ruralizzazione continuò tuttavia soltanto nei nuclei cristiani del Nord; la Spagna meridionale conobbe la penetrazione degli Arabi, il cui dominio rappresentò invece un elevato grado di civiltà, ben evidente non solo in campo politico e religioso, ma anche sul piano demografico ed economico, con l'inizio di una seconda importante fase urbana, legata ai nuovi sviluppi delle colture irrigue degli agrumi, dell'olivo e degli ortaggi. Elementi di raffinata cultura araba rimasero nelle città (basti pensare a Cordova) e nelle campagne anche dopo che l'invasione fu respinta a opera dei sovrani cristiani del Nord. Con la Reconquista, che vide la progressiva cacciata degli Arabi, si andarono popolando le vaste regioni centrali, precedentemente poco abitate, dove i sovrani cattolici – che già avevano contribuito al popolamento della Spagna nordorientale – favorirono lo sviluppo di nuove città sorte in buona posizione strategica (Ávila, Segovia, Cuenca ecc.). In conseguenza di tale politica di riorganizzazione territoriale (più tardi, all'epoca della grande espansione coloniale del Paese, vennero invece valorizzati i centri portuali costieri) la popolazione toccò i 9 milioni di ab., con forti addensamenti, oltre che nella tradizionale Andalusia, anche nelle Castiglie e nell'Estremadura. Tuttavia successivamente, soprattutto a causa del grande deflusso di energie giovani verso le terre del Nuovo Mondo, appena scoperto, la popolazione scese a 8 milioni nel sec. XVI, per diminuire ancora in quello seguente. Il sec. XVIII segnò invece un notevole cambiamento nella tendenza demografica del Paese: la popolazione si accrebbe con una certa rapidità, specie a favore dell'area periferica, cui si contrapponeva all'interno, in posizione centrale, la capitale Madrid, appositamente fondata come espressione della concezione unitaria e assolutistica del potere. Da allora l'incremento è stato costante e graduale e la popolazione, che nel 1833 contava ca. 12 milioni di ab., si raddoppiava poco più di un secolo dopo, nonostante gli effetti negativi delle ingenti correnti migratorie e della guerra civile, raggiungendo nel 1955 l'entità di 28,9 milioni di abitanti. È da dire che l'emigrazione verso l'estero fu in un primo periodo (ca. 1860-1950) rivolta massimamente verso l'America Latina: nella sola Argentina sbarcarono tra il 1857 e il 1915 ca. 1,5 milioni di spagnoli. L'emigrazione transoceanica toccò la massima vetta nel 1913, con ca. 230.000 partenze; successivamente il movimento migratorio si rivolse all'Europa, specie dopo il 1950, sfiorando nel 1964 le 200.000 partenze. Oggi vivono in America ca. 2,5 milioni di spagnoli e nel resto d'Europa (soprattutto in Francia, Germania e Svizzera) ca. 1,5 milioni.
Geografia umana: caratteristiche attuali dello sviluppo demografico
La popolazione, che ha raggiunto ormai i 40 milioni di ab. e la cui densità media – relativamente bassa per un Paese europeo – è di 79,6 ab./km2 (stima 2001), è distribuita in modo irregolare, rarefacendosi nelle province interne più aspre e aride (Cuenca, Guadalajara, Huesca, Teruel, Soria), poco abitate anche in passato, dove il latifondo ha creato un ambiente inerte dal punto di vista storico-economico; le densità più elevate si riscontrano lungo la costa, nella Catalogna (191 ab./km2; questo valore e quelli successivi si riferiscono ad una stima del 1998), nella Comunidad Valenciana (172), nelle Province Basche (290) e nelle Asturie (102), che sono i principali centri d'attrazione dell'emigrazione interna. Si tratta di un'autentica fuga dalle campagne e in genere dalle regioni più povere verso le coste, un tempo per le attività commerciali legate ai traffici transoceanici, oggi per quelle urbane e industriali. Una posizione a parte occupa nell'interno, rimasto essenzialmente rurale, la provincia madrilena, dove si ha una densità di 626 ab./km2: si tratta infatti di un'area vitalizzata dalla capitale, dal suo ruolo sovrano nell'ambito del Paese e che ospita, con i vari agglomerati periferici entrati a far parte del nucleo urbano, 5.091.336 ab., ossia quasi un decimo dell'intera popolazione spagnola.
Geografia umana: l'organizzazione rurale
L'organizzazione rurale, basata sui piccoli nuclei comunali, ha ben conservato i suoi caratteri tradizionali nei tipici villaggi aggregati (pueblos), spesso assai lontani gli uni dagli altri, formati da case raccolte intorno al castello o alla chiesa; la dimensione del villaggio è varia e intimamente legata alle necessità e agli ambienti agrari, secondo regole che risalgono a secoli ormai lontani. Nelle terre meridionali e nel Levante il villaggio, generalmente di notevoli dimensioni, è posto su un'altura per motivi di difesa e presenta i caratteri tipici dell'area mediterranea con le case ammassate e i muri imbiancati dalla calce; nell'altopiano interno esso è invece situato per lo più nelle conche, in funzione anche dell'approvvigionamento idrico, con abitazioni spesso modeste, con strutture di legno e fango; nella regione pirenaica predomina il piccolo villaggio di pastori e agricoltori che vivono in case di pietra, così come nella regione cantabrica e galiziana, dove piccoli gruppi di case sorgono negli angusti fondivalle. La casa sparsa si ritrova quasi esclusivamente nelle huertas a coltura intensiva di tutta la fascia costiera meridionale e della pianura andalusa.
Geografia umana: le principali concentrazioni urbanistiche
L'urbanesimo è ormai un fenomeno imponente. La struttura urbana, tradizionalmente ben ordinata nelle calles e avenidas che s'incrociano formando una scacchiera regolare, nobilitata dagli insigni edifici, pubblici e religiosi, del centro storico e resa vivace da quella sorta di grande salotto che è la calle mayor, “passeggio” obbligato dei suoi abitanti, stenta oggi a reggere l'impatto del massiccio flusso immigratorio. Gli eccessi di concentrazione, specie a Madrid e Barcellona, che a partire dal secolo scorso hanno assorbito la maggior parte della popolazione venuta via dalle campagne, hanno creato gravi incoerenze urbane, con quartieri di periferia caotici, privi o insufficientemente dotati di adeguate abitazioni e di vari servizi essenziali. Alla pressoché incontrollata espansione di Madrid e Barcellona si cerca oggi di porre rimedio contrapponendo alle due metropoli una serie di poli di sviluppo (Valencia nel Levante, Siviglia nella Spagna meridionale, Bilbao nella fascia cantabrica, Saragozza nella valle dell'Ebro, Valladolid nella Meseta settentrionale ecc.) per dare un assetto più organico all'organizzazione territoriale del Paese, che ha conservato per troppo tempo numerose zone arcaiche e sottosviluppate. La fortuna di Madrid (2.823.667 ab. nel 1998) si spiega sostanzialmente con la sua posizione nel cuore geografico del Paese, di cui è il massimo nodo di comunicazioni stradali, ferroviarie e aeree; creata artificiosamente capitale per ragioni politiche, per essere cioè il simbolo, anche geografico, del potere centrale, la città, ricca di testimonianze artistiche e culturali consone al suo ruolo di grande capitale, svolge oggi intense attività finanziarie, amministrative, commerciali e industriali (soprattutto industrie leggere) e forma un grande agglomerato urbano con i centri secondari della sua vasta periferia. Seconda città spagnola è Barcellona (1.454.695 ab. nel 1998) rilevante porto mediterraneo, il maggiore del Paese, avvantaggiato dalla sua posizione allo sbocco delle vie naturali del retroterra e sul passaggio obbligato delle vie che dai Pirenei scendono verso le città costiere del Levante e che il recente sviluppo del turismo ha fortemente aumentato d'importanza come nodo di comunicazioni; la città, cresciuta anch'essa in modo impressionante, ma più organico di Madrid, costituisce con i vicini agglomerati di L'Hospitalet de Llobregat, Badalona, Sabadell ecc., una vera e propria conurbazione, caratterizzata da una forte attività industriale (specie tessile, automobilistica e meccanica in genere) grazie anche alla vivacità imprenditoriale, tipica dei catalani. Sempre sul Mediterraneo sorgono Valencia (735.738 ab. nel 1998), terza città spagnola per numero di ab., sede di importanti industrie e centro commerciale, sbocco di una huerta assai ricca, e Málaga (542.981 ab. nel 1998), città largamente turistica, vertice della rinomata Costa del Sol; nell'interno, anch'essa in una fiorente area agricola, è Murcia (349.816 ab. nel 1998). Nel bacino andaluso la città maggiore è Siviglia (695.266 ab. nel 1998), situata sulla riva sinistra del Guadalquivir, di cui è attivo porto; città d'antica origine e ricca di testimonianze storiche e artistiche (già fiorente sotto il dominio arabo, mantenne la sua importanza dopo la Reconquista), è oggi anche sede di rilevanti industrie. Granada (242.823 ab. nel 1998), splendida città araba ricca di insigni monumenti che testimoniano la sua passata grandezza (basti pensare al complesso dell'Alhambra, tra le più alte espressioni dell'architettura araba), capitale di un regno che sin quasi alle soglie del sec. XVI resistette agli attacchi dei re cattolici (ultimo baluardo arabo, Granada cadde nel 1492), e Cordova (307.464 ab. nel 1998), essa pure capitale di un potente califfato arabo e uno dei massimi centri culturali del Medioevo, sono gli altri poli economici della regione andalusa, centri commerciali e industriali, nonché città turistiche di larga fama. Sull'Atlantico, nella Spagna settentrionale, c'è un'altra fascia di elevata densità e urbanizzazione: qui si affacciano vari porti, un tempo rivolti essenzialmente ai traffici con l'Europa nordoccidentale, oggi attivati dallo sviluppo industriale (industria pesante), che può attingere alle locali risorse minerarie (Asturie, Province Basche, Cantabria ecc.). Grande centro industriale e commerciale, tra i più dinamici del Paese, è Bilbao (351.084 ab. nel 1998), porto assai attivo, specie con la Gran Bretagna e in genere con l'Europa settentrionale; La Coruña (241.443 ab. nel 1998) e Vigo (286.774 ab. nel 1996), nella Galizia, sono anche importanti centri pescherecci; attivi per traffici e industrie varie sono inoltre Gijón (264.381 ab. nel 1998) e Santander (182.676 ab. nel 1998). Nella Meseta, dove città un tempo vitalissime hanno ormai un ruolo molto modesto (basti pensare a Toledo, che a ricordo della passata grandezza è rimasta il massimo centro religioso del Paese, sede del primate di Spagna), unico rilevante, dinamico centro industriale è Valladolid (316.956 ab. nel 1998); un po' meno Salamanca (158.003 ab. nel 1998) e Burgos (162.386 ab. nel 1998), città dell'antica nobiltà e alta borghesia leonese e castigliana. Di notevole importanza in quanto considerata nuovo polo di sviluppo nell'ambito dei recenti piani di riorganizzazione territoriale è infine Saragozza (600.781 ab. nel 1998), capoluogo dell'Aragona, centro commerciale e manifatturiero, sede di numerose industrie automobilistiche, chimiche, vetrarie e alimentari, importante nodo ferroviario e stradale a controllo delle vie che dalla Catalogna danno accesso alla Meseta.
Economia: generalità
A partire dalla guerra civile, la Spagna si chiuse in un vero e proprio isolamento politico: fu tra l'altro uno dei pochissimi Stati d'Europa a rimanere neutrale nel corso del secondo conflitto mondiale e solo nel 1955 volle entrare a far parte dell'ONU. Ne derivò inevitabilmente una serie di “ritardi” economici del Paese rispetto agli altri Stati europei; ma a partire dalla fine degli anni Cinquanta la Spagna dava avvio a un radicale processo di rinnovamento. L'ingresso nell'OECE, l'Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica, avvenuto nel 1959, può essere indicato come ben preciso inizio di questa svolta (il 1º gennaio 1986 si è compiuta un'altra fondamentale tappa nel processo d'integrazione della Spagna nel contesto internazionale, l'adesione alla CEE). Un Paese sino ad allora rimasto chiuso nell'ambito di una politica economica autarchica e protezionistica, la quale era peraltro riuscita a salvaguardare il tradizionale settore tessile oltre a quello siderurgico e metalmeccanico, optava dunque per la scelta “europea”; tale scelta, che poneva in luce tutte le arretratezze strutturali del Paese, implicava chiaramente la volontà di conseguirne il superamento, onde poter competere con l'estero. Furono sistematicamente valorizzate le risorse naturali e costruite nuove centrali termo- e idroelettriche; furono favoriti gli investimenti stranieri nell'industria, che qui trovava abbondante manodopera; infine, il Paese, di cui venivano opportunamente reclamizzati i rimarchevoli interessi storici e artistici e le non meno notevoli bellezze naturali, si “apriva” ai turisti, il cui afflusso si fece ben presto imponentissimo (con conseguente cospicuo apporto valutario): erano poste le premesse per il successivo “decollo”. Amplissimo è lo spazio lasciato all'iniziativa privata, settore in cui rimangono consistenti le facilitazioni alle società straniere che hanno oggi in mano molte delle principali attività industriali spagnole. A partire infatti dalla metà degli anni Sessanta, numerosi gruppi multinazionali investirono nel Paese ingenti capitali, attratti da un insieme di condizioni eccezionalmente favorevoli. Da parte sua il governo spagnolo impresse un nuovo dinamismo alla politica economica e finanziaria ottenendo degli incrementi produttivi da “miracolo economico”, soprattutto nei settori chimico e metalmeccanico. Ma al primo manifestarsi dei sintomi della recessione e della crisi energetica mondiale sono venute alla luce le debolezze e le contraddizioni del rapido sviluppo economico di un Paese che, tra l'altro, dipende dall'estero per la quasi totalità del proprio rifornimento di petrolio: sono così ormai palesi il limite strutturale di un assetto produttivo in gran parte subordinato agli interessi stranieri, l'arretratezza del settore agricolo, l'aggravarsi del deficit della bilancia commerciale, l'accentuarsi degli squilibri sociali (in particolare marcate sono oggi le inquietudini nel mondo del lavoro, dove la disoccupazione è tra le più alte d'Europa) e dei non meno forti divari esistenti fra le diverse regioni del Paese. Il problema regionale spagnolo, di dimensioni assai vaste, è d'antica data e non si presenta facile da risolvere; lungi dall'averlo appianato, l'impetuoso sviluppo economico ne ha al contrario accentuato gli aspetti negativi. L'industrializzazione infatti ha determinato un ingentissimo movimento migratorio interno, che ha coinvolto vari milioni di spagnoli. Le zone ad economia tipicamente agricola e pastorale hanno visto ulteriormente abbassarsi il loro già debolissimo valore demografico, mentre la popolazione si va sempre più concentrando in alcune aree (attorno a Barcellona, Madrid ecc.), accentuandone la già massiccia urbanizzazione, la quale notoriamente richiede che sia realizzata una vasta gamma di servizi sociali e di idonee infrastrutture, per non parlare degli alti costi della tutela ambientale e territoriale. La bilancia commerciale in tale periodo ha così segnato un notevole deficit, solo parzialmente attenuato a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, quando l'economia spagnola ha registrato una vivace crescita, con tassi tra i più elevati in Europa, grazie ai forti investimenti pubblici e alla crescita della domanda interna (va comunque tenuto in considerazione il ruolo fondamentale svolto dal capitale straniero). Attuata la ristrutturazione del sistema industriale e perseguita una rigorosa politica deflazionistica nonostante il forte scontento popolare, l'economia dei primi anni Novanta ha visto crescere gli investimenti nei settori più moderni della produzione, giovandosi anche di un positivo sviluppo del settore finanziario e del mercato borsistico. Dal punto di vista settoriale, la Spagna rimane un Paese marcatamente agricolo. L'industria ha superato la divisione tra un settore artigianale scarsamente avanzato e i moderni impianti industriali. Numerose e diversificate sono le branche del settore, ma mentre le industrie tradizionali perdono di importanza, gli investimenti si orientano principalmente verso attività ad alta tecnologia, come informatica e telecomunicazioni. Il saldo della bilancia commerciale (ormai quasi del tutto relativa a scambi intracomunitari) è in costante passivo, mentre quello della bilancia dei pagamenti è in parte compensato dalle entrate derivanti dalle rimesse degli emigrati e dal turismo. Fra i principali problemi strutturali rimane senz'altro lo squilibrio regionale, assai accentuato, che si cerca di contrastare con una dispendiosa politica di lavori pubblici (in particolare nelle comunicazioni stradali). La crescita elevata degli ultimi anni ha comunque ripianato il deficit pubblico, rendendo possibili ulteriori riduzioni della pressione fiscale (tra le più contenute tra i Paesi dell'UE). La disoccupazione, che resta invece tra le più alte in Europa, è scesa a meno del 14% grazie alla diffusione del lavoro interinale e dei contratti a termine, che costituiscono un terzo del lavoro subordinato complessivo (e i tre quarti per i lavoratori sotto i 25 anni). È leggermente migliorata anche la competitività internazionale del Paese che nel 2001 è passato dal 24º al 23º posto nella classifica mondiale dell'IMD (Institute for Management Development) di Losanna.
Economia: agricoltura
Le attività del settore primario hanno registrato nell'ultimo ventennio un sensibile decremento sia nel numero degli addetti sia nella partecipazione del settore alla formazione del prodotto nazionale. L'agricoltura spagnola si presenta nel suo insieme ancorata a schemi tradizionali e su di essi il moderno progresso tecnico ha potuto sinora incidere solo in limitata misura. Nuovi impulsi sono venuti dalla politica agraria governativa, impegnata a estendere la meccanizzazione delle colture, a favorire l'insediamento dei coloni per frenare il crescente esodo dalle campagne, a realizzare imponenti opere irrigue, a facilitare l'accorpamento delle proprietà nelle zone dove predomina il microfondo: uno degli ultimi esempi è il programma di riforma agraria avviato nel 1985 in Andalusia, che permetteva di espropriare le terre concedendole in affitto o favoriva la formazione di cooperative contadine, mentre sensibili si sono rivelati i contributi versati dalla CEE per il miglioramento del settore. La fondamentale divisione in Spagna umida e Spagna arida è non meno determinante per quanto riguarda le attività agricole; ancor più a tale ripartizione non corrispondono solo colture particolari, ma vere e proprie regioni aventi un inconfondibile paesaggio agrario. La Spagna arida a sua volta comprende sia aree con colture che non richiedono irrigazione (secano) sia aree con colture irrigue (regadío). Le aridocolture sono proprie della Meseta, delle depressioni dell'Ebro e delle coste mediterranee non irrigate, dove i cereali si alternano alle colture legnose (oliveti, vigneti). Vi prevale il latifondo con rese naturalmente basse e una gamma di colture non molto diversificate. Le zone a coltura irrigua intensiva, eredità degli antichi dominatori Arabi (che introdussero in Spagna nuove piante come l'arancio, il mandorlo, il riso, la canna da zucchero, il gelso), nel passato limitate in genere alle piccole pianure costiere del Levante e alla zona di Granada (aree famose per le loro huertas) sono oggi presenti anche nell'altopiano grazie alla realizzazione di grandi opere di sbarramento dei corsi fluviali e di canalizzazione (una splendida huerta si estende per esempio lungo le sponde dell'Ebro da Logroño a Saragozza). Nel complesso, però, le zone a regadío, pur prestandosi alle più svariate colture, soprattutto di primizie ortofrutticole e di colture industriali (barbabietola e canna da zucchero, cotone, tabacco) hanno un'estensione ancora piuttosto limitata. Infine nella Spagna umida, corrispondente alla fascia atlantica dalla Galizia alla Navarra, si pratica una policoltura intensiva associata all'allevamento bovino (è questa infatti la Spagna “bovina” per eccellenza) favorito dai ricchi prati e pascoli, e allo sfruttamento di boschi rigogliosi. Prevale la piccola proprietà; il microfondo raggiunge le punte estreme in Galizia. La cerealicoltura, di antica tradizione, ha le sue aree più importanti nell'Aragona, nelle Castiglie e nell'Andalusia. Rilevante è l'apporto dell'orzo largamente utilizzato per il bestiame; segue per importanza il frumento. Buone prospettive ha la coltura del riso, propria delle zone a regadío dell'Andalusia e del Levante, nonché delle zone acquitrinose del basso Guadalquivir; sono invece coltivate soprattutto nel Nord l'avena e la segale. Tra i prodotti alimentari di vasto consumo sono altresì le patate, che trovano le loro aree più adatte lungo i limiti meridionali della Meseta e dell'Estremadura. Grande importanza rivestono le colture legnose, in specie la vite, l'olivo e gli agrumi. La viticoltura si estende dalle province meridionali sino al León, grazie al clima caldo e asciutto e l'uva è ampiamente al servizio di una ricca e prestigiosa industria enologica. La Spagna è altresì uno dei massimi produttori del mondo di olio di oliva, alternando il primato con l'Italia; l'olivocoltura è rappresentata soprattutto nell'Andalusia. Nelle zone a regadío del Levante sono concentrate le colture frutticole, in primo luogo quella degli agrumi; la buona produzione di arance, mandarini e limoni, provenienti per gran parte dalle huertas di Valencia e Castellón de la Plana, consente alla Spagna un'ottima collocazione su scala mondiale. Elevati raccolti danno pure i fichi, le mandorle, le mele, le pere, le albicocche, le banane, i datteri che, unici in Europa, si ricavano dai palmeti di Elche. Nelle huertas si hanno altresì cospicui raccolti di prodotti orticoli, come pomodori, cipolle, fagioli, fave ecc. È del pari vasta la gamma delle colture industriali, tra le quali primeggiano la barbabietola da zucchero e il cotone; si coltivano inoltre tabacco, canna da zucchero, luppolo e varie oleaginose (arachidi, girasole, soia, colza ecc.). Le foreste, le più rigogliose delle quali si estendono nella zona cantabrica e in quella pirenaica, occupano il 32% della superficie territoriale; essenza di grande valore è il sughero, frequente nell'Andalusia occidentale, nell'Estremadura e nella Catalogna e che alimenta industrie quasi esclusivamente catalane.
Economia: allevamento e pesca
L'allevamento è un settore in cui la Spagna vanta un'antica tradizione, ma – come per l'agricoltura – vi permangono vaste sacche di arretratezza nelle strutture produttive. Prevalgono numericamente gli ovini; in regresso l'allevamento caprino mentre si tende a potenziare quello bovino e quello suino; a 51 milioni ammontano i volatili da cortile. Nella Murcia è praticata la sericoltura. Discreta importanza riveste la pesca, settore modernamente organizzato, i cui introiti sono determinanti per l'economia nazionale: tonni, seppie, naselli, acciughe, sardine e molluschi sono presenti in abbondanza nei mari spagnoli. Tra i centri pescherecci più importanti si annoverano Vigo, Pasajes, Huelva, Algeciras, Cádice, La Coruña.
Economia: risorse minerarie
Vasta è la gamma delle risorse minerarie, molte delle quali conosciute e sfruttate fin dai tempi più antichi. Si segnalano in particolare i minerali di ferro, estratti principalmente dai giacimenti cantabrici, quindi da quelli del Sistema Iberico e del Sistema Betico; fra gli altri minerali metalliferi un posto di importanza primaria spetta al piombo, proveniente dalla Sierra Morena, e allo zinco, estratto nella regione di Santander e nelle Province Basche, per entrambi i quali la Spagna occupa un ottimo posto a livello europeo. Notissimo è il mercurio di Almadén (Ciudad Real), già conosciuto al tempo dei Romani e per la cui produzione la Spagna si pone tra i primi produttori mondiali; minore importanza rivestono i giacimenti di rame. Il Paese si segnala invece per le piriti, pregiate per l'elevato contenuto di zolfo, con principali giacimenti nella zona di Ríotinto. Cospicua è anche la produzione annua di salgemma e salmarino; si segnalano ancora la potassa, la magnesite, quindi manganese, antimonio, tungsteno, stagno, bauxite, oro e argento. Le riserve carbonifere sono discrete, ma sono tuttavia del tutto insufficienti alle necessità dell'industria; scarso rilievo ha la produzione petrolifera (giacimenti presso Valladolid e Burgos), cui si aggiungono quantitativi piuttosto modesti di uranio, estratti nella zona di Lérida. Quanto al settore energetico, benché sia stato potenziato, la produzione di energia elettrica resta notevolmente inferiore a quella dei Paesi industrializzati dell'Europa occidentale. L'energia elettrica fu dapprima eminentemente d'origine idrica grazie alla realizzazione di numerose centrali localizzate inizialmente sull'alto corso dei fiumi, specie nella regione dei Pirenei orientali, in funzione delle industrie della Catalogna, poi lungo il corso medio delle arterie fluviali maggiori (Ebro, Duero, Tago), favorendo in tal modo varie altre città, come Valladolid e Madrid. Oggi però il Paese dispone di numerose centrali termiche, dislocate principalmente nel Nord, nel Levante e nell'Andalusia, alimentate sia da carbone nazionale sia, sempre più, da petrolio d'importazione; un certo peso ha assunto il settore nucleare, sfruttando l'uranio di Lérida.
Economia: industria
L'industria costituisce una struttura portante dell'economia spagnola: oltre al consolidamento delle capacità produttive, essa ha conosciuto significativi progressi nella composizione qualitativa. I principali distretti industriali continuano a essere quelli di più antico impianto, vale a dire il Nord del Paese, essenzialmente le Province Basche, dove operano numerosi complessi meccanici, avvantaggiati dalle risorse minerarie della zona cantabrica, la Catalogna, che, in aggiunta alle tradizionali attività tessili, ha ormai attivissime industrie chimiche e meccaniche, il Levante, in particolare Valencia, dove sempre fiorentissimo è il settore alimentare, infine l'area attorno alla capitale, che annovera importanti complessi chimici e meccanici. L'industria spagnola copre oggi pressoché tutti i settori produttivi anche se mostra un continuo incremento dell'industria manifatturiera rispetto a quella estrattiva, che fu all'origine di fondamentale importanza nell'economia del Paese. Buon livello europeo presenta la siderurgia, concentrata nell'area di Vizcaya (Province Basche), nelle Asturie, in Catalogna (produzione di acciai speciali) e presso Sagunto (Valencia): come ovunque in Europa, risulta però colpita, negli ultimi anni, da una profonda crisi con sensibili effetti occupazionali. Principali prodotti dell'industria metallurgica, che presenta una più varia e articolata ubicazione e che in larga misura lavora anche minerali d'importazione raggiungendo ormai produzioni di tutto rispetto su scala europea, sono l'alluminio, il rame, il piombo, lo stagno, lo zinco; inoltre buona parte del carbone estratto viene trasformata in coke metallurgico. Rilevante sviluppo ha avuto il settore meccanico, rivolto in primo luogo alla costruzione di mezzi di trasporto, ma anche di macchinari d'ogni genere e di utensili vari. Così locomotive e materiale ferroviario sono prodotti a Barcellona, Madrid, Valencia; il distretto siderurgico asturiano-basco fornisce laminati di acciaio, rotaie ecc.; a Barcellona si produce anche macchinario di alta precisione. L'industria automobilistica, in cui parte determinante ha avuto e continua ad avere la partecipazione delle società straniere, è ubicata in prevalenza nelle grandi città. Ad essa è per lo più collegata la fiorente industria della gomma, con sede principale a Barcellona. L'industria navale ha i principali centri a El Ferrol, Cartagena, Cádice, Barcellona e Bilbao; Siviglia e Cádice sono anche sedi di complessi aeronautici. Straordinaria espansione ha registrato l'industria chimica; è concentrata in Catalogna, ma sono sorti vari impianti anche nell'area asturiana-basca, favorita dai sottoprodotti della metallurgia, nonché in taluni centri dell'interno, come Madrid, Valladolid e Saragozza. Ottima è la produzione di acido solforico, che si ricava dalle abbondanti piriti nazionali; un ruolo minore, ma non modesto nell'ambito europeo, rivestono anche le produzioni di fertilizzanti azotati, di resine sintetiche e materie plastiche, di acido nitrico e cloridrico, di soda caustica ecc. Conserva il suo ruolo l'industria tessile. Importanza minore ha il lanificio, cui si aggiungono buone produzioni di fibre tessili artificiali e sintetiche, di filati di lino, canapa, iuta ecc. L'industria alimentare preminente è quella saccarifera, che opera per gran parte nelle aree di produzione della canna e della barbabietola da zucchero, con principali stabilimenti a Saragozza e in altri centri della valle dell'Ebro; di rilievo sono anche l'industria della birra, gli oleifici, gli stabilimenti conservieri, quelli lattiero-caseari; le manifatture di tabacco. L'industria della carta ha la sua massima ubicazione nelle Province Basche, in Catalogna e a Valencia. Le lavorazioni del vetro (che vanta numerosi stabilimenti, tra cui notevoli quelli di Bilbao e di Arija, presso Santander, di La Granja ecc.), della ceramica (a Talavera de la Reina, a La Cartuja presso Siviglia ecc.), della concia delle pelli e del cuoio completano il quadro dell'industria spagnola. Particolare dinamismo hanno mostrato, nel più recente periodo, i comparti dell'elettronica e delle telecomunicazioni.
Economia: comunicazioni e commercio
Insufficiente e piuttosto disorganico è il sistema della viabilità interna, in cui non indifferente è il ruolo esercitato dalla morfologia nel determinare vari fondamentali flussi di traffico. Nella rete viaria si può individuare una decina di tracciati base, che si irradiano da Madrid verso i margini del Paese, seguendo di preferenza gli andamenti vallivi. Si dimostra invece particolarmente inadeguata a sostenere i ritmi impressi dall'accelerata espansione economica la rete ferroviaria, servita in genere con attrezzature scadenti; essa si basa essenzialmente sulla RENFE (Red Nacional de Ferrocarriles Españoles), nazionalizzata sin dal 1941 e caratterizzata dalla scarsa elettrificazione – su un totale, già di per sé molto modesto, di ca. 12.000 km, solo poco più della metà sono elettrificati – e dal dover compiere spesso percorsi tortuosi per difficoltà causate dal rilievo e dalla necessità di soddisfare esigenze locali (per la rete ferroviaria, come per le strade, lo sviluppo fu concepito in funzione della capitale). Dal 1992 è attiva una linea ferroviaria ad alta velocità da Madrid a Siviglia, che verrà prolungata fino a Barcellona. Anche se ancora inadeguata alle necessità del Paese, la rete stradale è in via di ampliamento. Le comunicazioni marittime fanno capo a numerosi porti modernamente attrezzati, tra cui predominano quello di Barcellona per il movimento passeggeri e di Bilbao per il movimento merci; altri porti di notevole traffico sono Santander, Siviglia, Valencia, Gijón ecc. L'incremento degli scambi con l'estero ha favorito lo sviluppo della flotta mercantile. Le comunicazioni aeree all'interno del Paese non svolgono un ruolo di grande importanza; attivissimi sono invece i collegamenti con l'estero. Compagnia di bandiera è l'Iberia, che effettua servizi sia nazionali sia internazionali; il Paese dispone di una ventina di aeroporti internazionali, tra i quali predominano quelli di Barajas (Madrid) e di Barcellona. ? Il commercio interno svolge un ruolo di primo piano nella vita economica del Paese in relazione alla ormai assai vasta gamma di prodotti offerti dal mercato e all'aumento dei consumi di massa. Gli scambi interni più notevoli avvengono fra il Nord industriale e le aree agricole del Sud, mentre Madrid esercita l'attrazione propria di un vasto centro polifunzionale metropolitano dalle rilevanti dimensioni demografiche. Negli anni Ottanta ha avuto un notevole consolidamento il settore finanziario e il mercato borsistico. Anche il movimento commerciale con l'estero ha registrato una straordinaria espansione e diversificazione delle voci merceologiche; i prodotti alimentari e agricoli in genere, per il passato alla base delle esportazioni spagnole, sono ora largamente soppiantati dai più vari prodotti industriali, specie chimici, tessili, del cuoio ecc., quindi da macchinari e mezzi di trasporto, ferro e acciaio. Le importazioni sono eminentemente rappresentate da petrolio e altre materie prime e da macchinari per lo più a elevata tecnologia, che il Paese non è ancora in grado di produrre, ma anche da generi alimentari, specie cereali. Il forte deficit della bilancia commerciale rivela l'alto costo che il Paese ha pagato e continua a pagare, sia per la sua industrializzazione sia per soddisfare le molte esigenze che l'aumentato tenore di vita della popolazione, in particolare di quella urbana, oggi richiede. Gli scambi più rilevanti si svolgono nell'ambito della UE (Francia, Germania, Italia, Portogallo, Paesi Bassi), con gli Stati Uniti e, per quanto riguarda le importazioni di petrolio, con l'Arabia Saudita: un impulso positivo è venuto dopo l'ingresso nella CEE (1986) e la partecipazione allo SME (1989). Conserva la sua importanza il turismo.
Istruzione
Il periodo più indicativo per la formazione dell'indirizzo pedagogico spagnolo è quello del Rinascimento: nei sec. XV e XVI sorsero infatti alcuni fra i maggiori centri d'istruzione. La struttura scolastica moderna spagnola è, a grandi linee, modellata ancor oggi sulle istituzioni scolastiche del passato. La creazione del Ministero della pubblica istruzione risale al 1900. L'istruzione è obbligatoria dai 6 ai 14 anni. Secondo il programma di riforma varato nel 1991, l'obbligo scolastico è stato protratto fino a 16 anni. L'obbligo scolastico si può assolvere interamente nelle scuole primarie oppure per i primi quattro anni nella scuola primaria e per i rimanenti anni negli institutos o colegios. Al termine di questi otto anni viene rilasciato il bachillerato elemental. L'intero territorio nazionale è suddiviso in distretti scolastici. La struttura dell'organizzazione scolastica spagnola si articola in tre cicli principali: elementare, secondario e universitario. Le scuole primarie sono suddivise in scuole statali, scuole ecclesiastiche, scuole di patronato, scuole per stranieri e scuole private. L'insegnamento secondario è diviso in generale e tecnico. Quello generale (prevalentemente teorico), impartito negli institutos o colegios e della durata di sette anni, è distinto in tre cicli: elementare, con quattro anni di studio, superiore, biennale, con specializzazione in lettere o in scienze, al termine del quale viene rilasciato il bachillerato superior, pre-universitario, annuale. L'insegnamento tecnico e professionale è impartito in istituti che forniscono una preparazione generale e insieme pratico-scientifica. L'istruzione superiore si svolge nelle università vere e proprie e nelle universidades laborales, scuole tecniche superiori che conferiscono i gradi di architetto e di ingegnere nelle diverse specialità. Il sistema universitario prevede tre cicli di studi. Il primo, che porta alla diplomatura, dura tre anni; il secondo ciclo, della durata di due o tre anni, conferisce la licenciatura; dopo un terzo ciclo di due anni si ottiene infine il titolo di dottore. La riforma scolastica del 1970 ha istituito nelle università i dipartimenti, le cui funzioni sono quelle di coordinare i vari insegnamenti e di promuovere progetti, ricerche di gruppo e lo sviluppo didattico e scientifico. Sedi universitarie sono Barcellona (1450; Università autonoma, 1968), Bilbao (1967), Deusto (1886), Comillas (1892), Granada (1526), La Laguna, Isole Canarie (1701), Madrid (1508; Università autonoma, 1968), Murcia (1919), Pamplona (1952), Oviedo (1608), Salamanca (1287, 1838), Santiago (1520), Siviglia (1502), Valencia (1500), Valladolid (1346), Saragozza (1533). Vi sono inoltre 8 università tecniche e vari istituti superiori.
Preistoria
Ben conosciuto in numerosi giacimenti localizzati per lo più in sistemi di terrazzi alluvionali è il Paleolitico inferiore. Al complesso pre-acheuleano appartengono le industrie di Cullar Baza I, vicino a Granada, con faune riferite al Mindel, mentre resti paleontologici molto arcaici, ma privi di contesto archeologico, sono stati rinvenuti in località Venta Micena (Granada). Diverse fasi dell'Acheuleano sono note, per esempio, nel sito all'aperto di Pinedo, vicino a Toledo (Acheulano antico), a Aridos, vicino a Madrid (dove è stato rinvenuto un interessante sito di macellazione di elefante), Torralba e Ambrona (Soria) ecc. Nella grotta di Atapuerca, vicino a Burgos, già nota per la presenza di industrie acheuleane associate a resti umani e fauna del Pleistocene medio, sono stati recentemente rinvenuti altri due crani umani in buono stato di conservazione, con caratteri che ricordano Homo sapiens arcaico. Resti umani riferiti a Homo sapiens neandertalensis o al gruppo degli anteneandertaliani provengono dai depositi rissiani o, secondo alcuni autori, würmiani, dalla grotta di Cova Negra, vicino a Valencia. Il Paleolitico medio è noto soprattutto in giacimenti in grotta. Alcuni dei più importanti giacimenti, dove sono segnalate diverse facies del Musteriano, sono: il Riparo Romani, con livelli del Musteriano a denticolati privo di tecnica Levallois e del Musteriano di tradizione acheuleana, i livelli inferiori della Cueva Morin e di El Pendo (Santander), Devil's Tower e Gorham Cave a Gibilterra, con Musteriano charentiano tipo Ferrassie, la grotta di Los Casares (Guadalajara), di Mollet, Toroella de Montgri e Cariguela (Granada) con Musteriano tipico, la grotta di El Castillo, vicino a Santander, dove è stata messa in luce una lunga sequenza compresa tra il Musteriano e il Magdaleniano, con importanti manifestazioni di arte parietale e mobiliare. Le fasi più antiche del Paleolitico superiore sono attestate in grotte come L'Arbreda (Gerona) e Cueva Morin con industria castelperroniana, datata a 36.950?6580 da oggi, e livelli dell'Aurignaziano. Diversi livelli riferiti alla successiva fase del Paleolitico superiore (Gravettiano) sono noti nella già citata grotta de L'Arbreda (C14: 20.130 da oggi), nella grotta di Beneito (Alicante), al Castillo, a Cueto de la Mina nelle Asturie, a Mallaetes e al Parpallo (Valencia), alla Cueva Morin, a El Pendo ecc. Particolarmente importante è l'espansione del Solutreano con datazioni comprese tra 21.000 e 16.000 anni da oggi, individuato in numerose grotte, cui seguono, nella sequenza generale delle industrie della fine del Pleistocene superiore e dell'Olocene antico, livelli del Magdaleniano (C 14: 13.500-8300 a. C. circa) e dell'Aziliano, con datazioni intorno a 10.500-9500 anni da oggi. Eccezionale sviluppo, in particolare durante il Magdaleniano, ma con notevoli esempi riferiti al Solutreano, hanno le diverse manifestazioni di arte parietale nella regione franco-cantabrica, attestate in siti come Altamira, i cui livelli magdaleniani sono datati a 15.000 anni da oggi. Dei tempi neolitici sono notevoli i ritrovamenti delle grotte delle province orientali e quelli della cultura detta delle tombe a fassa. Una facies diffusa in tutto il territorio iberico è quella del bicchiere campaniforme; alla metà del III millennio compare, nella parte sudorientale della penisola, dove la ricchezza mineraria (soprattutto di stagno) costituisce una sicura attrattiva per i contatti con genti alloctono, la ricca facies di Los Millares; il particolare sviluppo di questa parte della penisola, in cui un precoce sviluppo di forme di differenziazione sociale è dovuto anche alla necessità di mobilitare il lavoro delle comunità in impianti di irrigazione, resi necessari dalle aride condizioni climatiche, è evidente anche nella successiva fase di El Argar, cui è coeva, nella Mancha, la cultura di Las Motillas. Nella tarda Età del Bronzo si sviluppa la facies del Suroeste, mentre, già a partire dal sec. X a. C., i siti di cultura “tartessia” rappresentano spesso la prima fase “di villaggio” di centri destinati a raggiungere, nel periodo iberico, un livello protourbano.
Storia: il periodo romano e preromano
Tra gli Iberi, primitivi abitanti della Spagna affermatisi soprattutto nella ricca zona sudoccidentale, si vennero presto a inserire, attratti dalle ricche miniere di argento e di rame e da un'agricoltura fattasi prospera, i più antichi navigatori del Mediterraneo orientale: i Fenici, che installarono empori a Gades e Málaga, gli Egeo-Cretesi e, verso i sec. VIII-VII a. C., anche i Greci provenienti da Marsiglia che installarono basi sulla costa orientale. Successivamente, intorno al sec. VI, si ebbero dal Nord verso la zona centroccidentale della penisola immigrazioni di Celti che si fusero con gli Iberi dando origine alla popolazione mista dei Celtiberi. Contemporaneamente iniziò l'azione colonizzatrice dei Cartaginesi che in breve riuscirono a subentrare ai Fenici e a imporsi agli Iberi e, dopo la battaglia del 535 a. C. ad Alalia, nelle acque della Corsica, anche ai Greci estendendo così il loro predominio sulle fasce costiere orientali e meridionali della Spagna. Durante la I guerra punica (264-241 a. C.), le popolazioni spagnole si ribellarono ai Cartaginesi, ma questi, pur soccombenti nel conflitto, con Amilcare e, più tardi, con Annibale, tornarono a instaurare la propria preminenza nella penisola. Scoppiata la II guerra punica (218-212 a. C.), la Spagna divenne anch'essa teatro del conflitto e, dopo la presa di Cartagena a opera di Scipione nel 209 a. C., le sue zone cartaginesi, nucleo delle future province della Spagna Citeriore e Ulteriore, passarono sotto il controllo romano. L'ordine imposto da Roma suscitò subito a più riprese rivolte e guerriglie tra le tribù interne, specialmente tra i Lusitani e i Celtiberi, che impegnarono duramente per anni le legioni romane: successi ottennero contro di esse Catone, inviato in Spagna nel 195, e, soprattutto, Tiberio Sempronio Gracco, padre dei futuri tribuni, che assunse il comando delle operazioni nell'anno 179 e, col suo atteggiamento benevolo nei confronti delle tribù locali sottomesse, assicurò alla penisola un ventennio di pace. Nel 154, alla ripresa dei moti di rivolta, Roma, temendo che Cartagine ne approfittasse per riprendere le sue mire espansionistiche, inviò in Spagna un esercito di circa trentamila uomini che, tuttavia, riuscì ad aver ragione dei ribelli solo con Scipione Emiliano che nel 133 fece capitolare, dopo un assedio estenuante, la città di Numanzia, ultimo centro della resistenza dei Celtiberi. L'intera penisola passò così sotto il controllo di Roma e da allora iniziò, pur con nuove rivolte locali, il processo di romanizzazione, soprattutto grazie a insediamenti coloniali. Nel sec. I a. C. si ebbe però in Spagna un generale moto insurrezionale e a mettervisi a capo fu Sertorio, che, dopo aver militato nelle file di Mario, aveva abbandonato l'Italia con altri, sottrattisi alle contese civili del tempo. Sertorio riuscì addirittura a staccare la Spagna da Roma, ma la rivolta fu presto stroncata da Pompeo (73), che si trattenne poi sul posto per qualche tempo a riorganizzare la provincia. Nel 68 a. C. fu questore in Spagna Cesare che vi tornò nel 45 quando, a Munda, spense l'ultimo focolaio di resistenza pompeiana. Nel 29 a. C. le rivolte ripresero violente tanto che Augusto stesso rimase in Spagna dal 27 al 24, quando la situazione parve migliorare; ma quando essa tornò ad aggravarsi nel 22 e nel 19 a. C., Agrippa si spinse nelle montagne dell'interno e pose fine definitivamente al problema spagnolo massacrando e trapiantando in pianura le tribù ribelli. Augusto divise la Spagna in Citerior o Tarraconensis, Lusitania, e Ulterior o Baetica, province imperiali le prime due e senatoria la terza; più tardi separò dalla Citerior le Asturie e la Callaecia che costituirono la provincia di Callaecia un secolo più tardi. Nel riordinamento amministrativo di Diocleziano la Spagna, costituita in diocesi, fu divisa in sei province, tra le quali le Baleari e la Carthaginiensis staccate dalla Tarraconensis. I secoli di dominio romano lasciarono ovviamente molte e durature tracce in Spagna e, in concreto, numerose e belle città, una splendida rete stradale, ponti e acquedotti (il tutto finanziato da un intenso sfruttamento delle risorse del Paese: metalli, vini, oli, cereali), nonché un meccanismo politico-burocratico molto solido. La dominazione romana tuttavia non risolse, ma al contrario acuì, la differenziazione fra i grandi possidenti terrieri (veri latifondisti, nel Meridione) – che molto spesso erano i “regoli” delle antiche tribù iberiche, divenuti proprietari sotto la protezione delle leggi romane – e la massa popolare (contadini schiavi e semiliberi del Sud e del Centro, pastori indomiti, spesso veri banditi, del Nord); in complesso, qualche decina di migliaia di privilegiati contro almeno sei milioni di derelitti. Fra gli uni e gli altri esisteva, è vero, un terzo ceto: quello degli hispani, abitanti delle città, funzionari, maestri di scuola, curiali arricchiti, uomini colti che contribuirono, in qualche caso (i Seneca, Quintiliano, Lucano, Marziale, gli imperatori Traiano e Adriano ecc.), alla letteratura e al governo dell'Impero. Essi però non rappresentavano tanto una “classe” sociale, quanto una “mentalità” urbana, certamente importante nei secoli “normali”, ma destinata a indebolirsi con la decadenza delle città. In questo ceto trovò presto la sua base il cristianesimo, diffuso fin dal sec. I, perseguitato dall'Impero (si ebbero numerosi martiri, a Mérida, Siviglia, Saragozza, Barcellona ecc.), ma infine tramutato, per un singolare destino, in erede dello spirito gerarchico e culturale dell'Impero stesso, continuatore e difensore della lingua latina e delle idee di universalità e autorità. E di fronte alle invasioni barbariche del sec. V, rotti quasi del tutto i vincoli politici con Roma, i vescovi finirono con diventare defensores civitatum (inteso il termine civitas nel doppio significato di città e di civiltà). Non a caso un vescovo, Isidoro di Siviglia, fu la più alta figura della Spagna romano-barbarica e il primo ideologo di un effimero stato nazionale.
Storia: le invasioni barbariche
Nel 409 bande armate di Svevi, Vandali e Alani penetrarono in Spagna, seminando devastazioni e terrore fra le popolazioni inermi. Poco dopo (412) i Visigoti, “federati” al servizio di Roma, entrarono dalla Francia meridionale (loro vero regno finché non ne furono espulsi dai Franchi nel sec. VI) e stabilirono un'effimera capitale a Barcellona. I sec. V e VI sono convulsi di lotte, soprattutto fra gli stessi barbari (solo alla fine del sec. VI Leovigildo riuscì a eliminare gli Svevi, conquistando la loro roccaforte, dalla Galizia al Tago); ma anche fra Visigoti e Ispanoromani del versante mediterraneo e fra Visigoti e Impero di Bisanzio, che intanto era riuscito a“liberare” tutto il Meridione della penisola, da Cartagena all'Algarve, poi portoghese; e infine fra i Visigoti stessi, non molto numerosi (80-100.000 in tutto) ma in perenne anarchia, almeno fino a quando non cominciarono a diventare, da capi di bande armate, grandi possidenti di terre. L'unificazione della penisola si delineò, finalmente, con Leovigildo e più ancora con Recaredo, che si convertì al cristianesimo nel 587; e appunto in questo momento, sant'Isidoro di Siviglia, fiero della propria “vittoria”, esaltò i Goti come simbolo dell'unità della “nazione ispana”, che aveva trovato la propria capitale a Toledo, centro anche geografico del Paese, e conferito autorità ufficiale e legislativa ai vescovi riuniti nei concili toledani. Ma l'unità politico-religiosa idealizzata e cantata da Isidoro era molto più teorica che reale. L'oligarchia gota (poche migliaia di persone in tutto) assommava potere e privilegi, dominando le masse sottomesse, mentre era ormai quasi del tutto estinto il ceto urbano e commerciale. Solo la Chiesa resisteva ed elaborava lentamente gli strumenti legislativi (culminanti nel Liber Iudiciorum del 654) che avrebbero dovuto unificare, parificandoli, Goti e “Romani”. Ma, legandosi allo Stato, la Chiesa stessa aveva perso gran parte della sua libertà e iniziato una tradizione che sarebbe durata a lungo nella storia spagnola. Così il regno visigoto rimase “fondato sulla sabbia” e si comprende come sia facilmente crollato al violento impatto con l'invasione musulmana del 711. Ne rimase un vago ricordo, presto trasfigurato in leggenda.
Storia: la Spagna musulmana
Il trionfo dell'Islam in Spagna fu di una rapidità incredibile. In 5 anni le bande di Ta'riq e Musa, generali del califfato di Damasco, giunsero da Gibilterra ai Pirenei e oltre. Erano Arabi, Siriani e Marocchini, molto diversi e divisi fra di loro, nonostante la comune religione, e preoccupati solo di impadronirsi delle terre confiscate ai vinti Visigoti e ai grandi latifondisti. Non pensarono neppure di sottomettere gli indomiti pastori-banditi delle montagne cantabriche e in molti casi vennero a patti con i caudillos locali, limitandosi a riscuoterne tributi e tasse, senza modificare, quindi, l'antico e ostinato “cantonalismo” spagnolo. Le lotte fra di loro erano endemiche ma nel sec. VIII, scampato alla strage della famiglia degli Omayyadi a Damasco, arrivò in Spagna il principe !Abd ar-Rahman (756-788), il quale, rotti i legami di dipendenza politica con l'Oriente, gettò le basi di un nuovo Stato ibero-islamico che doveva durare due secoli e mezzo con momenti di autentico splendore civile: l'emirato e poi (929-1031) il califfato di Cordova. Neppure nella sua massima potenza (sec. X), però, lo Stato cordovese riuscì a unificare sotto la bandiera dell'Islam la penisola. La maggioranza dei suoi sudditi rimase sempre indigena (cristiani, mozarabi, o rinnegati, muladí, relitti dell'antica borghesia urbana e artigiana dell'epoca previsigota), capace di martirio per la fede, come ai tempi di Muhammad I (851-866), e persino di ribellioni, come quelle di Toledo (853) e di !Omar ibn Hafsun sulle montagne di Ronda (899-917). Inoltre i mozarabi avevano già una loro lingua romanza e una certa cultura, specie nel ceto ecclesiastico e monacale (il latino di Eulogio e di Alvaro di Cordova è uno dei più limpidi del Medioevo europeo); e anche se l'Islam trionfò sui contadini fino al sud del Duero e dei Pirenei, in molte città (Saragozza, Toledo, Mérida ecc.) gli indigeni restarono, in complesso, superiori in ogni senso ai dominatori musulmani. Si aggiungano le continue discordie fra questi ultimi, aggravate dalla presenza di mercenari e schiavi, da eresie religiose e rivalità personali, e si comprenderà come la brillante storia del califfato cordovese si sia conclusa in piena anarchia, invano frenata, per un momento, dalle vittorie del più grande condottiero della Spagna islamica, al-Mansur (o Almanzor, 939-1002). Prima ancora della scomparsa “ufficiale” del califfato, l'unità politica di Al-Andálus (come gli storici musulmani chiamarono la Spagna, salvando dall'oblio il nome degli scomparsi Vandali) si frazionò nei cosiddetti “regni di taife” (dall'arabo taifa, banda, fazione o partito), ciascuno con dinastia e vicende proprie. E se ciò fu utile per l'arte e la cultura (prima, in certo modo, monopolizzate dalla splendida Cordova, forse la più colta e fiorente città europea del sec. X), in ambito politico ne derivarono gravi conseguenze che capovolsero la situazione precedente. Infatti gli staterelli cristiani che nel frattempo erano sorti nel Nord poterono passare dalla difensiva all'offensiva e portare avanti la Reconquista (già stroncata da al-Mansur) fino a Toledo (1085), spesso alleati a re musulmani contro altre taife (le quali d'altronde si servirono spesso di alleati cristiani contro altri cristiani: come nel caso del Cid Campeador, visto poi dalla poesia come l'eroe cristiano per eccellenza). La caduta di Toledo provocò l'intervento del sultano almoravide del Marocco, Yusuf (1086), che impose la sua superiorità militare, sorretta dal fanatismo religioso, su diversi “re” ispano-musulmani, da Siviglia a Valencia, eliminando l'aristocrazia arabo-andalusa, spegnendo quasi del tutto il rigoglio artistico-culturale e rendendo la vita difficile ai sudditi cristiani ed ebrei, molti dei quali si rifugiarono presso i principi cristiani (fatto di rilievo in sede culturale). Ma presto anche l'impero almoravide si frantumò e venne sopraffatto da un'altra ondata di berberi fanatici, gli Almohadi (in Spagna dal 1145 al 1223); questi tuttavia non poterono annientare gli Stati cristiani ormai forti (Castiglia, Aragona, Portogallo) e subirono una sconfitta decisiva alle Navas di Tolosa (1212). Conseguenza diretta di questa fu la conquista dell'Andalusia da parte del re castigliano Ferdinando III (Cordova, 1236; Siviglia, 1248); a questo punto il dominio musulmano della Spagna poté considerarsi finito, anche se il piccolo regno di Granada sopravvisse ancora fino al 1492, in una situazione di vassallaggio nei confronti dell'ormai dominante Castiglia.
Storia: gli stati cristiani del Nord fino al XIII secolo
Parallelamente alla storia di Al-Andálus, e in stretti rapporti con essa, si sviluppa quella degli Stati cristiani del Nord. Per un paradosso storico, i montanari-predoni della Cordigliera Cantabrica e dei Pirenei, che tanta resistenza avevano opposto ai Romani prima e poi alla prima Spagna cristiana, finirono col diventare i difensori della fede contro l'Islam e i promotori della riscossa nazionale. Il primo regno fu quello delle Asturie, col semi-leggendario Pelagio I (718-737), e capitale prima a Cangas de Onis e più tardi (inizi sec. IX) a Oviedo. Ma è chiaro che un forte appoggio venne dai Franchi, preoccupati del pericolo musulmano sulla loro frontiera meridionale; per questo Carlo Magno realizzò una spedizione nel 778 che non poté conquistare Saragozza, ma rafforzò un secondo staterello, quello di Pamplona (con dinastia propria, di Iñigo Arista, dalla metà del sec. IX), e portò poi alla creazione della Marca Ispanica, forte caposaldo militare, con una “contea” indigena, quella di Barcellona, a partire da Wifredo il Velloso (874-898). Altre piccole contee pirenaiche, a cominciare da quella d'Aragona (primo conte conosciuto un Auriolus morto verso l'809), nacquero per l'appoggio dei Franchi, salvo poi rendersene indipendenti di fatto. Nel sec. X il regno asturiano si era potuto estendere, pressoché indisturbato, verso ovest (Galizia) e a sudest (con nuova capitale a León, 914), raggiungendo la valle del Duero e favorendone i “ripopolatori” con forti privilegi “democratici”: da qui doveva poi nascere la Castiglia (“regione dei castelli”), marca di frontiera destinata dalla sua stessa peculiare situazione, oltre che dallo spirito fiero e dinamico dei suoi abitanti cantabri, a diventare indipendente e a prendere l'iniziativa della Reconquista. L'apogeo politico-militare del califfato di Cordova (sec. X) giunse troppo tardi per annientare quei regni e vane furono anche, in definitiva, le grandi vittorie di al-Mansur (Zamora, Simancas, Barcellona, 985; Coimbra, León, 988; Santiago, la “città santa”, 997; Burgos, 1000). Il crollo del califfato, l'anarchia delle taife e il nuovo, generale slancio dell'intera Europa cristiana dopo il Mille, capovolsero la situazione. Alfonso VI di Castiglia, aiutato da “crociati” franchi (uno dei quali fu poi suo genero e primo “conte di Portogallo”), scese fino al cuore della penisola e conquistò Toledo (1085); Alfonso I d'Aragona conquistò finalmente Saragozza (1118), facendone la capitale del secondo regno peninsulare, reso poi più potente dall'unione con la mediterranea Catalogna; e intanto la “strada di San Giacomo” (camino de Santiago) portò fino in Galizia migliaia di pellegrini, monaci, commercianti e nobili europei. Nacquero i grandi monasteri cluniacensi (sec. XI) e cistercensi (XII) e con essi i nuovi studi, l'arte romanica, la storia, l'epica, la lirica cortese, i codici in cui il diritto romano si sovrappose ai costumi barbari. Da Alfonso VI a Ferdinando III, soprattutto, rifulse il ruolo determinante della Castiglia, Paese “rivoluzionario”, senza classi sociali chiuse, temerario e avventuriero (se ne resero conto, più tardi, l'Europa e specialmente l'America), conquistatore e “ripopolatore” del centro e del meridione della penisola, in cui impose anche la propria lingua, più “moderna”, più chiara e dinamica delle altre lingue, nobili e arcaiche. Ovviamente, la rapidità di questa fase della Reconquista (sec. XIII) portò con sé un gravissimo problema: l'assimilazione di masse ingenti di popolazione attiva, commercianti, artigiani, agricoltori, mudéjares, ebrei e moreschi, diversi per la religione, la lingua, l'economia, i costumi e in genere di cultura superiore a quella dei conquistatori. Codesto fatto macroscopico si risolse in un vantaggio, sul piano culturale e linguistico (l'arte mudéjar si diffuse nella penisola; il castigliano si arricchì di migliaia di vocaboli e di calchi espressivi arabi ecc.), ma su quello politico e socioeconomico non poteva non comportare difficoltà e ostacoli d'ogni genere, come i secoli seguenti chiaramente dimostrarono.
Storia: dalla conquista di Cadice (1262) ai re cattolici
Terminata con la conquista di Cádice (1262) la fase “aurea” della Reconquista, questa entrò in una lunga stasi, dovuta a un complesso di cause. Anzitutto non era affatto escluso il pericolo di un'ennesima invasione musulmana e la Castiglia, priva di una marina propria, dovette “montare la guardia” sullo stretto di Gibilterra, servendosi soprattutto della flotta genovese (né mancarono gli scontri armati, specie all'epoca di Alfonso XI, che respinse l'ultimo tentativo marocchino nella battaglia del Salado, 1340, e quattro anni dopo conquistò Algeciras con l'aiuto navale di aragonesi e genovesi). In secondo luogo, le ambizioni “imperialistiche”, nate dalle vittorie sui Mori, dovevano mettere la Castiglia in urto con gli altri due più importanti regni peninsulari: l'Aragona (forte e ricca per le conquiste e la politica di Giacomo I nel Mediterraneo e l'attività commerciale della marina catalana) e il Portogallo, tenacissimo nel rifiutare la supremazia castigliana e vincitore ad Aljubarrota (1385). Ma più grave fu la crisi interna: distribuendo le fertili terre meridionali tolte ai Mori fra gli ordini militari (Calatrava, Alcántara, Santiago) e i cavalieri castigliani collaboratori della conquista, i re di Castiglia crearono potenti e indocili feudatari, incapaci d'altra parte di far produrre i loro latifondi, spesso in lotta con i contadini moreschi e facili debitori di denaro nei confronti dei banchieri ebrei (a cui, del resto, gli stessi re ricorrevano continuamente, mancando del tutto di idee in materia finanziaria). Ne derivarono la decadenza dell'agricoltura andalusa, anche per la mancanza di navi che ne trasportassero i prodotti, l'affermazione della medievale pastorizia – con facile vendita della lana a fiamminghi e fiorentini, e conseguente potenza della Mesta (cartello dei produttori di lana, che arrivò a essere un vero Stato entro lo Stato) – e infine carestie, sommosse e odio antiebreo. Di qui alle guerre civili non c'era che un passo e infatti, incominciate all'epoca di Alfonso X, troppo “dotto” forse per essere un buon amministratore, esse continuarono a lungo con momenti ed episodi tragici, come al tempo di Pietro I il Crudele (1350-1369), assassinato dal fratellastro Enrico di Trastámara. Si aggiungano calamità naturali, come la terribile peste nera del 1348 (con successive ondate nel 1362, 1371, 1375), che devastarono il Paese più ancora delle guerre civili. Enrico di Trastámara, il fratricida, e i suoi successori, sempre più deboli e incerti, regnarono per un secolo su un Paese sconvolto dalla fame, dai pogrom antiebraici (feroce quello di Siviglia nel 1391), dalle rivolte dei contadini, dei borghesi, dei grandi signori, invano contrastate da qualche raro politico illuminato, come don Álvaro de Luna, finito sul patibolo nel 1453. L'ultimo dei Trastámara, Enrico IV (1454-1474), tentò di difendere i conversos e di porre fine all'insubordinazione della grande nobiltà, ma fu infine deposto da quest'ultima, che lo sostituì con la sorella di lui, Isabella, maritata nel 1469 al re d'Aragona, Ferdinando. Con essi ebbe inizio un'epoca interamente nuova.
Storia: i re cattolici
La tendenza all'unificazione dei regni peninsulari veniva di molto lontano, almeno da quando rinacque nelle Asturie del sec. VIII il mito isidoriano della “monarchia gota” (manifesto anche nell'adozione di nomi di origine germanica – Alfonso, Ferdinando ecc. – da parte dei re peninsulari). Alla fine del sec. XV essa fu resa possibile non solo da una comprensibile reazione al caos in cui era caduta la Castiglia, ma anche dal diffondersi degli ideali umanistici (favoriti dai deboli ma colti Trastámara) e dal fatto che sul trono di Aragona sedeva, dal “compromesso” dinastico di Caspe (1412), una dinastia di origine castigliana. Senza dimenticare, beninteso, la tendenza alla formazione di forti unità nazionali, palese nella coeva storia europea. È noto che il matrimonio dei futuri re cattolici (così titolati dal papa dopo la conquista di Granada avvenuta nel 1492) non portò alla fusione dei rispettivi Stati. Al contrario, questi conservarono frontiere, assemblee (Cortes) e governi distinti, anche quando, dopo la morte del genero Filippo di Asburgo, Ferdinando fu reggente del regno di Castiglia (1506-16). Ma se lo spirito di Isabella è avvertibile nelle vicende interne della Castiglia – ristabilimento dell'ordine, con mano dura; avvio a una riforma religiosa; nascita dello “spirito di crociata”, che portò alla conquista del regno moro di Granada in undici anni di guerra (1481-92), all'introduzione dell'Inquisizione e all'espulsione degli ebrei –, spetta in primo luogo al “politico” Ferdinando, non a caso ammirato dal Machiavelli, il merito di aver fatto della Spagna una potenza di rango internazionale, con la conquista dell'Italia meridionale e della Navarra, le spedizioni d'Africa (1509-11) e le alleanze con la casa di Borgogna e la casa d'Austria, che, rovesciando la politica filofrancese della Castiglia medievale, dovevano avere gravi conseguenze per la Spagna futura. Va anche notato che, mentre in Aragona Ferdinando rispettò, in genere, la tradizionale, per quanto relativa, “democrazia”, in Castiglia Isabella “mise a posto” la turbolenta aristocrazia, ma non le tolse la sua privilegiata posizione politica e territoriale (latifondi, maggioraschi ecc.) e rispettò anche tutti i privilegi della Mesta, per cui, in definitiva, la crisi dell'agricoltura castigliana non fece che aumentare. Senza contare il crollo dei commerci e delle industrie (nonostante provvedimenti protezionistici) e il caos finanziario dopo l'espulsione degli ebrei (1492). E quando la sorte elargì alla Castiglia di Isabella il dono inaudito dell'America, con la favolosa quantità dei suoi metalli preziosi, questi non risolsero affatto la crisi economica, ma anzi, paradossalmente, l'aggravarono. L'epoca dei re cattolici fu certamente importante per la Spagna, in quanto vero “giro di ruota” dal Medioevo all'età moderna. Ma non tutto fu splendido in essa, come parve alla storiografia nazionalista e agiografica. L'intolleranza e lo “spirito di crociata”, da un lato, e la mancanza di una politica economica, dall'altro, dovevano pesare duramente sul futuro del Paese.
Storia: Carlo V
È noto come una serie di circostanze fortuite (morti, matrimoni reali, follia di Giovanna, erede dei re cattolici) finisse col destinare il maggiore impero della storia europea nelle mani del giovane Carlo d'Asburgo, nato a Gand nel 1500, educato in ambiente borgognone-fiammingo, signore assoluto della Spagna – che non conosceva nemmeno – a 16 anni e, come se non bastasse, imperatore del Sacro Romano Impero a 19, quale successore del nonno paterno Massimiliano. Per 40 anni, fino a quando cioè non lasciò le sue innumerevoli corone per cercare la pace nel monastero di Yuste, la storia di Carlo V (Carlo I di Spagna) è quella di un momento drammatico dell'Europa – Riforma e guerre di religione, duello all'ultimo sangue con la Francia di Francesco I, minaccia turca nei Balcani e nel Mediterraneo, guerre in Italia persino col papa (sacco di Roma del 1527) – e insieme della Spagna e dell'America. Il suo regno spagnolo cominciò con una violenta rivolta aristocratica contro i ministri fiamminghi (Comuneros di Castiglia, sconfitti a Villalar nel 1521 e ferocemente castigati); continuò tra violente polemiche teologico-politiche (pro e contro gli illuminati e gli erasmisti, pro e contro i metodi di colonizzazione in America, pro e contro il Concilio riformatore) e fu caratterizzato sempre da guerre esterne – in Germania, in Italia, nei Balcani, nel Mediterraneo, in Africa – e da un'affannosa ricerca di denaro liquido presso i banchieri italiani e tedeschi, nelle cui mani finivano i metalli preziosi d'America prima ancora di essere estratti. Nonostante l'“ispanizzazione” morale di Carlo V (dimostrata, alla fine, dal suo ascetico desengaño di Yuste), è chiaro che l'immenso salasso di uomini e di denaro richiesto da tante e così disparate imprese non poteva non ritorcersi, in definitiva, contro la Spagna, sempre sull'orlo della bancarotta economica e, cosa ancora più grave, radicalmente incapace di comprendere il mondo capitalista e borghese. La politica europea di Carlo V, finita nel fallimento, si risolse fatalmente in un aggravarsi della crisi economica e nell'accentuato distacco dell'“idealismo” castigliano dal “realismo” etico-politico dell'Europa moderna.
Storia: i successori di Carlo V
Con i due primi successori austriaci di Carlo V, il figlio Filippo II (1556-1598) e Filippo III (1598-1621) – accentratore pedante e testardo il primo, imbelle il secondo e succube di rapaci ministri (come Francisco Gómez Lerma) –, la Spagna fu costretta a seguire la strada aperta dai re cattolici e da Carlo V, con fatale involuzione progressiva. Prigioniera del suo stesso integralismo religioso, divenuta quasi un nuovo “califfato”, si trovò obbligata a un'affannosa e interminabile lotta su un duplice fronte: l'ortodossia politico-religiosa all'interno, la supremazia europea (e mondiale) all'estero. L'Inquisizione – vero tribunale per la difesa dello Stato – non esitò a imprigionare e processare persino personalità religiose di primo piano, e di provata “innocenza”, come il cardinale-primate B. Carranza e il poeta-teologo Luis de León; mentre l'implacabile discriminazione fra “cristiani vecchi” (i soli di “sangue puro”) e “nuovi”, discendenti di ebrei (marranos) e Mori, e solo per questo sospetti, ancorché battezzati, seminava odi e ingiustizie senza fine, paralizzando insieme l'attività intellettuale e quelle commerciale e finanziaria. Sul piano internazionale la potenza spagnola ebbe soprattutto due nemici implacabili: l'Inghilterra e la Francia. L'odio personale e religioso che opponeva Filippo II a Elisabetta (l'“eretica”, l'assassina della Stuart) era aggravato da consistenti dissensi politici: le piraterie inglesi contro l'America spagnola, la conquista spagnola del Portogallo, secolare alleato dell'Inghilterra (1580), e soprattutto l'intervento inglese nella questione dei Paesi Bassi. L'ostinata volontà di Filippo II di conservare a ogni costo questa parte dell'eredità di Carlo V, preservandola insieme dall'“eresia”, costò alla Spagna decenni di guerra, perdite immense d'uomini e di denaro, violenze e ingiustizie senza numero (basti ricordare il “tribunale del sangue” del duca d'Alba a Bruxelles) e determinò alla fine la nascita di un altro nemico irriducibile: l'Olanda. In definitiva, ad essa si dovettero anche il tremendo disastro dell'Invencible Armada (1588) e il predominio inglese sulle rotte oceaniche; il disastro terrestre di Rocroi (1643), seguito da quello diplomatico di Vestfalia, e infine la Pace dei Pirenei (1659), che consacrava insieme la superiorità della Francia di Luigi XIV e la decadenza della Spagna dal rango di prima potenza mondiale. L'immane sforzo per mantenere un ruolo politico molto superiore alle sue reali possibilità demografiche e finanziarie costò anche alla Spagna, com'era da attendersi, la rovina economica. Mentre la popolazione, salassata dalle guerre continue e dall'emigrazione in America, toccava, alla fine del sec. XVII, un minimo di sei milioni, la galoppante inflazione causata dall'afflusso dei metalli preziosi americani, le deficienze congenite del sistema agrario (che costrinsero a importare cereali per far fronte alle carestie e alla fame di buona parte della popolazione), il sempre più scarso rendimento dell'industria incapace di sostenere la concorrenza dei prodotti francesi, italiani e fiamminghi, migliori e meno cari, la bancarotta del commercio laniero rovinato dal monopolio della Mesta, la mancanza di capitali e di iniziative (persino la tratta degli schiavi venne lasciata nelle mani di appaltatori stranieri), l'inettitudine di una burocrazia statale sempre più numerosa, lenta e inutile, anche per il sistema di vendita allora in voga in Europa (ma che in Spagna durò più a lungo) delle cariche pubbliche, e infine il caos del sistema fiscale, che gravava soprattutto sui meno abbienti, costituiscono gli aspetti salienti di un grande disastro economico. Nel 1609, l'espulsione di trecentomila moriscos, abili agricoltori e artigiani – estrema conseguenza dell'isabellino “spirito di crociata” e dell'integralismo elevato a sistema di governo – rappresentò un altro colpo mortale per l'agonizzante economia. Con i due ultimi austriaci – l'imbelle Filippo IV (1621-65), che lasciò governare il conte-duca d'Olivares, monomaniaco assertore di una potenza ormai illusoria, e Carlo II (1665-1700), facile preda di fattucchiere e di scongiuratori di demoni – si tocca veramente il fondo della decadenza; perduto il Portogallo, l'interno stesso del Paese divenne teatro di rivolte, secessioni e persino di un colpo di stato (Giovanni Giuseppe d'Austria), che naturalmente non bastò a salvarlo.
Storia: i Borbone e Napoleone
All'inizio del sec. XVIII, ormai incapace di governarsi da sé, la Spagna fu disputata dalle grandi potenze europee – la Francia di Luigi XIV contro l'Austria, l'Inghilterra e l'Olanda alleate – in una lunga e sanguinosa guerra di successione (1702-13). Risultato della quale fu l'avvento sul trono spagnolo del francese Filippo V di Borbone (1700-1746); la politica spagnola tornò a essere sostanzialmente filofrancese, almeno fino al 1789, in una posizione subalterna regolata dal “patto di famiglia” (1733, rinnovato nel 1743 e 1761) che la costrinse fra l'altro a ripetute guerre con l'Inghilterra. All'interno, però, l'azione della nuova monarchia si fece ben presto sentire con risultati positivamente sostanziali all'epoca di Ferdinando VI (1746-59) e in particolare di Carlo III (1759-88), il più “illuminato” dei Borbone e senza dubbio il miglior sovrano che abbia mai avuto la Spagna. Avvalendosi di collaboratori generalmente onesti e bene intenzionati, da prima stranieri (francesi, poi italiani, come G. Alberoni, G. Grimaldi, L. Squillace) e infine spagnoli (Ensenada, Aranda, Campomanes, Floridablanca), i Borbone iniziarono una serie di “riforme” dall'alto, intese da prima al riordino dell'amministrazione statale – sarebbe stato impossibile governare un Paese moderno mantenendo l'arcaica e caotica amministrazione austriaca – e presto anche al ricupero economico e culturale. Ancorché ostacolata e rallentata in tutti i modi dalla resistenza delle forze conservatrici (la Chiesa, l'Inquisizione, l'alta aristocrazia, che continuava a possedere la maggior parte delle terre, pur rappresentando meno di un decimo della popolazione), l'azione riformatrice conseguì indubitabili successi: costruzione di strade e porti, inizio di una colonizzazione interna, rinascita dell'agricoltura (con nuovi metodi e impulso di scuole “tecniche”), rilancio delle province e delle regioni periferiche (cominciò nella seconda metà del secolo il decollo dell'industriosa Catalogna), rinnovamento dell'istruzione superiore (specie dopo l'espulsione dei gesuiti, 1767), fine delle discriminazioni razziali con l'abolizione del “disonore legale” gravante sugli artigiani, creazione di centri nuovi e attivi come le Società Economiche degli Amici del Paese, repressione del banditismo e del vagabondaggio, fiscalizzazione più equa, fine dei privilegi esorbitanti della Mesta e dei grandi proprietari ecc. Alla fine del secolo, la popolazione era salita da 7 a 10 milioni e mezzo, e il numero degli aristocratici e degli ecclesiastici era più che dimezzato. Notevoli successi si ottennero, in senso analogo, anche nei vicereami americani (portati da 2 a 4 e potenziati economicamente e culturalmente) col risultato però di far nascere anche le prime idee (e moti) d'indipendenza, che dovevano trionfare all'inizio del sec. XIX. La promettente rinascita, così vasta e palese al tempo di Carlo III, doveva tuttavia subire un netto arresto col figlio e successore di lui, Carlo IV (1788-1808), sia per l'inettitudine del sovrano, che lasciò governare Godoy, un ministro venale e di torbide origini, sia anche e soprattutto perché la Spagna, legata dal “patto di famiglia”, si trovò fatalmente coinvolta nel grande dramma europeo di fine secolo: la Rivoluzione francese del 1789 e le conseguenti guerre del Consolato e dell'Impero. La Pace di Basilea (1795), dopo una disastrosa guerra con la Francia repubblicana, e soprattutto i due patti di San Ildefonso (1796 e 1800) con cui la Spagna si legò di nuovo alla Francia, le costarono la perdita di alcune colonie americane, la distruzione pressoché totale della flotta a Trafalgar (1805) – e quindi, poco più tardi, la perdita dell'America – e l'assoggettamento a Napoleone, con gravissime conseguenze. All'inizio del 1808, con la scusa di combattere il Portogallo ribelle al “blocco continentale”, Napoleone occupò militarmente la Spagna “alleata” e facendo leva sull'ostilità esistente fra l'inetto Carlo IV e il figlio di lui, il vile Ferdinando VII, depose (Colloquio di Bayonne) i due Borbone e li sostituì col proprio fratello Giuseppe, “trasferito” da Napoli. Pensava con questo di aver risolto in definitiva la “questione spagnola”; ma si sbagliava perché una violenta insurrezione popolare, seguita da cinque anni (1808-13) di feroce guerriglia (un termine spagnolo che doveva diventare universale) lo costrinse a impegnarsi a fondo nella penisola, rivelandosi, alla fine, una delle cause decisive della sua sconfitta. Non meno gravi, però, furono per la Spagna le conseguenze di quella che gli storici definirono “guerra dell'indipendenza”, ma che in realtà fu una guerra civile, giacché molti spagnoli presero parte a essa dalla parte dei francesi, convinti in buona fede (da veri “illuminati”, quali erano, e credenti negli “immortali principi dell'89”) che fosse l'inizio di una “nuova storia”, finalmente moderna, per il loro tribolato Paese. La loro sconfitta segnò quindi il trionfo della reazione più oscurantista e inquisitoriale e l'inizio di un lungo dramma che esplose nella guerra civile del 1936-39. La convulsa storia moderna e contemporanea della Spagna si è svolta, dunque, sotto il segno nefasto della guerra civile, la “guerra di Caino”, ha detto M. de Unamuno; e che questa tragica peculiarità abbia contribuito a rendere più alti, per dir così, i Pirenei, “distinguendo” la Spagna dal resto d'Europa quasi quanto nell'alto Medioevo, è confermato dal fatto che le massime “crisi” europee (1848, 1870, 1914-18, 1939-45), almeno in apparenza, non l'hanno riguardata, come se si trovasse in un altro continente, o vi sopravvivessero inspiegabilmente gli inestinguibili odi religioso-razziali dei remoti secoli della Reconquista.
Storia: la Restaurazione e le guerre carliste
Dopo la caduta di Napoleone, la Restaurazione assolutista, impersonata in Spagna da Ferdinando VII, si prolungò per un ventennio, fino alla morte del re (1833), con una parentesi di tre anni (1820-23) nel corso dei quali una rivolta di militari liberali e massoni, guidata da Riego, lo costrinse a ripristinare la Costituzione di Cádice (votata nel 1812, ma soppressa dal re nel 1814 al momento del suo rientro in Spagna), che era stata esemplata su quella francese del 1791. Com'è noto, questo triennio costituzionale finì drammaticamente, a opera di un esercito francese (i “centomila figli di San Luigi” del duca d'Angoulême), mandato dalla Santa Alleanza a ristabilire l'ordine (battaglia del Trocadero, 1823). D'altronde il triennio stesso, caratterizzato da un tremendo caos politico, aveva dimostrato l'immaturità democratica degli spagnoli e in particolare l'indifferenza delle masse contadine e analfabete nei confronti delle “libertà” sancite dalla Costituzione. Tiranno ottuso (anche se fornito di una certa grossolana furberia), Ferdinando VII governò dispoticamente, fidandosi più della sua camarilla che dei pavidi ministri e odiando soprattutto gli intellettuali e la cultura in genere. Si dovette chiaramente alla sua cecità politica la perdita delle colonie d'America, negli anni Venti. Dopo la fine del triennio costituzionale, il suo spirito di rancore e di vendetta contro i liberali portò a una fase di vero “terrore bianco”. Alla fine, però (a partire dal 1828), il rigore si andò allentando e ministri più illuminati (F. L. Ballesteros, F. Cea Bermúdez) poterono dare qualche impulso al progresso economico del semirovinato Paese. Ma alla morte del re, che lasciava erede la figlia Isabella, di tre anni, sotto la reggenza della madre Maria Cristina di Borbone-Napoli, il fratello di lui Don Carlos – riconosciuto come Carlo V da una minoranza di reazionari fanatici – scatenò la prima delle guerre carliste (1834-39) che per decenni dovevano insanguinare il Paese. Di fronte al grave pericolo, la reggente dovette appoggiarsi ai liberali ed emanare un decreto di amnistia che consentì il ritorno in Spagna di decine di migliaia di emigrati politici del 1808 e del 1823. Nata in condizioni così precarie, la seconda democrazia spagnola non poteva non avere vita languida. La feroce guerra civile, oltre a costare molto sangue e denaro, causò una più grave conseguenza: il predominio politico dei generali. Il quarantennio seguente è infatti dominato dai golpes o pronunciamientos di questi, e in particolare di quattro: B. Espartero, R. M. Narváez, J. Prim e L. O'Donnell, diversi come “coloritura” politica (Espartero, per esempio, si appoggiò ai progressisti; Narváez, invece, ai conservatori, e O'Donnell capeggiò un babelico partito chiamato Unión Liberal), ma simili nei metodi di governo. Infine, nel 1868, una rivoluzione cacciò dal trono l'inetta Isabella II, a opera del generale Prim. Questi chiamò a sostituirla Amedeo di Savoia, figlio di Vittorio Emanuele II, ma venne assassinato da sicari borbonici nello stesso momento in cui arrivava in Spagna il nuovo re (1870). Amedeo I regnò poco più di due anni, sempre fra crisi e disordini, e alla sua abdicazione (febbraio 1873) venne proclamata la Repubblica, mentre la guerra civile imperversava un'altra volta, a opera di carlisti, alfonsisti, cantonalisti ecc. In pochi mesi di vita la Repubblica ebbe 4 presidenti: E. Figueras, F. Pi y Margall, N. Salmerón e E. Castelar, e il caos fu completo. Il 29 dicembre 1874, un ennesimo generale, A. Martínez de Campos, si “pronunciava” a Sagunto, proclamando la restaurazione monarchica nella persona di Alfonso XII, figlio della deposta Isabella II.
Storia: da Alfonso XII alla dittatura di Primo de Rivera
Il periodo 1874-98 portò finalmente alla Spagna la tranquillità politica, grazie a una stabile struttura democratico-parlamentare, e un innegabile progresso socioeconomico. La monarchia costituzionale (Alfonso XII, e dopo la morte di lui, nel 1885, la reggente Maria Cristina d'Asburgo in nome del figlio Alfonso XIII) e illuminati statisti “civili”, quali A. Cánovas del Castillo e P. M. Sagasta, capi dei due partiti che si alternarono pacificamente al potere (conservatori e liberali, vicini al modello inglese), resero effettive le libertà fondamentali di coscienza, associazione, stampa e insegnamento, e le conquiste civili, come la giuria popolare e il suffragio universale. Il consolidarsi di una borghesia attiva – specialmente in Catalogna e nei Paesi Baschi, dove si moltiplicarono le imprese commerciali, le industrie e le banche –, le opere pubbliche, in particolare le ferrovie (sia pure largamente finanziate da capitali esteri), gli sviluppi dell'agricoltura, permisero di superare, almeno in parte, il forte distacco fra la Spagna e il resto d'Europa. La popolazione aumentò (da 15 a 20 milioni in mezzo secolo) e si alzò il livello di vita. Ma c'era anche un rovescio della medaglia: scarsa moralità politica (elezioni truccate, invadenza politica dei grandi proprietari-elettori, clientelismi, corruzione nei governi locali, scissioni nell'interno dei partiti, che screditarono, infine, il regime democratico), squilibrio sempre più accentuato fra l'aumento della popolazione e quello della produzione agricola e industriale, bilancia commerciale quasi sempre in deficit, sviluppo dei movimenti sociali (quello anarchico prima e quello socialista) e tendenze autonomistiche delle regioni più ricche (Catalogna e Paesi Baschi), represse invano dal rigido centralismo di Madrid. Ma il fattore più deleterio per le sorti della fragile democrazia spagnola fu la lunga questione di Cuba, che, dopo un'interminabile guerriglia nella colonia, sfociò nella guerra del 1898 contro gli Stati Uniti, perduta in poche settimane, e nel forzato abbandono degli ultimi resti dell'immenso impero di Carlo V. Ne derivò un grave danno economico, ma ben più grave fu quello morale. Il regno di Alfonso XIII (1902-31) vide, da una parte, la progressiva decadenza del regime parlamentare, nonostante l'onestà di uomini politici come A. Maura, J. Canalejas Mendaz e E. Dato (i due ultimi morti assassinati), e dall'altra l'acutizzarsi delle tensioni politiche e sociali, con scioperi, sommosse e dure repressioni (“settimana tragica” di Barcellona, 1909). Continue crisi di governo (trentatré in vent'anni, 1902-23), per lo più inutili e incomprensibili per le masse, alimentando la sfiducia nella democrazia parlamentare, indussero il re a intervenire sempre più pesantemente in politica, alle spalle dei propri ministri e con l'appoggio dell'esercito. Immemori della lezione di Cuba, i generali cercarono prestigio e promozioni in un'altra infelice guerra coloniale, nel Marocco stavolta, e complice il re incapparono, dopo un lungo salasso di uomini e di denaro, nella disfatta di Anoual (1921). Questa, coincidendo con la grave crisi economica che seguì la prima guerra mondiale (durante la quale la Spagna, grazie alla sua neutralità, aveva realizzato pingui guadagni commerciando con tutti i belligeranti), portò al colmo l'esasperazione popolare. Unanimi per la prima (e forse ultima) volta, Parlamento e Paese reclamarono la punizione dei responsabili, ai quali non rimase che l'estremo ricorso, tante volte sperimentato con successo nel sec. XIX: il colpo di stato e la dittatura militare, impersonata dal generale M. Primo de Rivera (1923-30). A suo merito furono, indubbiamente, il ristabilimento dell'ordine pubblico e una notevole ripresa economica, grazie anche a un vasto programma di opere pubbliche, elettrificazione, produzione di ferro e acciaio. Ma il paternalismo autoritario della dittatura non risolse alcun problema veramente importante del Paese: si limitò a congelarli tutti, dandoli per risolti. Minato anche dall'opposizione degli intellettuali (come Unamuno), il fragile regime andò in pezzi al primo urto contro una più forte realtà: la crisi economica mondiale del 1930. E solo poco più di un anno dopo la caduta del dittatore, il 14 aprile 1931, semplici elezioni municipali facevano crollare anche la monarchia.
Storia: le premesse della guerra civile
Nata pacificamente, fra le speranze della maggioranza della nazione, la Seconda Repubblica finì, com'è noto, nella tragedia della guerra civile del 1936-39, prologo della seconda guerra mondiale e della dittatura franchista. Per comprendere sul piano storico questo ennesimo fallimento delle “sinistre” spagnole non basta considerare che i propositi riformatori dei politici repubblicani – teoricamente impeccabili, come li precisò la Costituzione del 1931, esemplata su quella tedesca di Weimar – dovevano necessariamente cozzare contro l'opposizione dei ceti privilegiati (latifondisti, grandi industriali e finanzieri), i quali – soprattutto dopo le rivoluzioni asturiana e catalana dell'ottobre 1934 – cercarono anche appoggi internazionali ed ebbero contatti diretti col fascismo italiano, da cui nacque la Falange spagnola di J. A. Primo de Rivera, figlio del deposto dittatore (gruppo peraltro che rimase sempre marginale e di minoranza). Né basta ricordare l'antica vocazione “golpista” dei generali, che diede il via alla guerra civile il 18 luglio del 1936. Nel biennio chiave di fondazione della Repubblica (1931-33), prima del rafforzamento delle opposizioni di destra (monarchici, carlisti, alta borghesia) e di sinistra (anarchici, comunisti), imprudenze ed errori gravi sono imputabili alla coalizione governativa di centrosinistra (radicali di M. Azaña e socialisti di varie e troppe correnti), che promise molto più di quello che poteva fare, improvvisò riforme eccessivamente ambiziose senza poterle perciò attuare a fondo, offese i sentimenti religiosi della maggioranza con un anticlericalismo rabbioso e finì con lo scontentare tutti – a cominciare dalla piccola borghesia che l'aveva appoggiata nel 1931 –, esasperando i dissensi e gli opposti estremismi. Si spiega quindi la sbandata a destra delle elezioni del 1933, che portarono al potere la CEDA (partito democristiano di J. M. Gil Robles, sostanzialmente conservatore), con altre formazioni di centrodestra non estremiste. A questo punto un consolidamento della debole democrazia sarebbe stato, forse, ancora possibile se le opposizioni non si fossero lanciate ad avventure folli, come le insurrezioni anarchico-separatiste delle Asturie e di Catalogna. Terrorizzati dagli eccessi forsennati, le estreme destre e alcuni generali cominciarono a pensare a una controrivoluzione armata, mentre le estreme sinistre, momentaneamente sconfitte, si armavano a loro volta per la rivincita.
Storia: la guerra civile
Prima ancora delle elezioni del febbraio 1936, che portarono alla vittoria del Fronte Popolare (sulla base peraltro di una precedente legge maggioritaria che attribuiva l'80% dei seggi alla lista che avesse avuto più del 50% dei voti), destre e sinistre avevano già iniziato la loro guerra civile. Le vicende della guerra (18 luglio 1936-1º aprile 1939) sono ben note. I ribelli, guidati dai generali F. Franco, E. Mola, J. Sanjurjo e M. Goded (i tre ultimi morti presto tragicamente), conquistarono subito le regioni settentrionali, fino a Saragozza e alla Sierra del centro, esclusi però i Paesi Baschi e la Catalogna, che divennero repubbliche autonome confederate con Madrid. Contemporaneamente, truppe marocchine e del “Tercio” si impadronivano di Siviglia e di altre città andaluse, con l'appoggio aeronavale dell'Italia fascista (la quale successivamente mandò a Franco molto materiale bellico e fino a 120.000 soldati, mentre la Germania nazista contribuiva con una divisione aerea e fino a 30.000 “specialisti”). La ribellione fallì invece a Madrid e a Barcellona, che rimasero ai repubblicani, con le regioni del Centro, fino all'Estremadura, e dell'Est. Forze popolari più o meno organizzate (sebbene sempre minate da dissidi fra anarchici e comunisti) e più tardi (da ottobre-novembre) “brigate internazionali” antifasciste, fino a un massimo di 40.000 uomini, lottarono a fianco delle truppe governative, senza poter salvare l'Estremadura e Toledo, ma fermando però i franchisti alle porte di Madrid, che resistette eroicamente fino alla fine. L'Unione Sovietica fornì aiuti di aerei, carri armati e specialisti, limitati però dalle difficoltà di trasporto o da intralci internazionali. Davanti a tali massicci interventi, la Società delle Nazioni si dimostrò praticamente impotente. Si limitò a creare un quasi umoristico Comitato per il non-intervento, di cui facevano parte la Germania e l'Italia nel tempo stesso in cui praticavano il più spudorato intervento. Sul piano militare, i fatti principali furono: nel 1937 le conquiste franchiste di Málaga e dei Paesi Baschi (con conseguente annullamento del fronte del Nord), le battaglie di Guadalajara e di Brunete, che rafforzarono la difesa di Madrid; nel 1938 la battaglia di Teruel, l'avanzata franchista fino al Mediterraneo, che tagliò in due la zona repubblicana, e la disperata battaglia dell'Ebro, ultimo sforzo bellico dell'esercito repubblicano; nel 1939 la caduta della Catalogna e la fuga in Francia di oltre 200.000 repubblicani, e infine la consegna di Madrid a Franco da parte di una “giunta di Difesa” ribelle al governo legittimo e l'occupazione franchista del Levante valenciano.
Storia: l'ascesa di Franco e la sua dittatura
Sul piano politico, l'assunzione da parte di Franco di tutti i poteri civili e militari (1º ottobre 1936) e il “decreto di unificazione” del 17 aprile 1937 che creava un partito unico falangista-tradizionalista, struttura portante della dittatura; mentre, dal lato repubblicano, la debolezza del governo nei confronti delle potenti organizzazioni anarchiche (CNT-FAI), comuniste (col suo forte V reggimento, comandato da E. Lister e J. Modesto), socialiste (PSOE-UGT) e trotzkiste (POUM) – quest'ultima liquidata poi in piena guerra per ordine di Stalin – determinò una situazione di caos che spiega anche troppo bene i successi militari dei franchisti. Quando, dalla fine del 1937, il governo del socialista J. Negrín riuscì a imporre una certa disciplina nella retroguardia e a riorganizzare l'amministrazione, era ormai troppo tardi. In realtà, l'ostinazione degli anarchici, dei trotzkisti e di parte dei socialisti nel volere “prima la rivoluzione e poi la guerra”, contribuì alla vittoria di Franco non meno dei potenti aiuti militari forniti a costui da Hitler e da Mussolini. La guerra civile costò alla Spagna, a parte le perdite materiali (distruzioni, regresso economico), ca. 300.000 morti sui fronti di battaglia, più un numero imprecisato (ma forse ancora più elevato) di vittime nelle retroguardie. Le esecuzioni di nemici del regime continuarono per anni, dopo il 1939, nella Spagna franchista. Centinaia di migliaia furono gli emigrati politici, fra cui molti intellettuali. Durante la seconda guerra mondiale, il nuovo regime simpatizzò apertamente con la Germania e l'Italia, ma limitò il suo intervento a una “divisione blu” (División azul) che combatté a fianco dei tedeschi sul fronte russo. Dopo il 1945 si trovò isolato sul piano internazionale, ma fu letteralmente salvato dalla guerra fredda che, dividendo gli ex Alleati, indusse gli Stati Uniti e l'Inghilterra a considerare la Spagna un'utile pedina sullo scacchiere antirusso. Così, la Spagna entrò nella FAO (1950), nell'UNESCO (1952) e infine nell'ONU (1955), che pure l'aveva condannata come Paese non democratico nel 1946. Intanto il regime aveva iniziato un'evoluzione formale, proclamando la Spagna regno (1947) – solo nel 1969 Franco riconobbe ufficialmente come futuro successore Juan Carlos di Borbone, nipote di re Alfonso XIII –, diminuendo il peso politico della Falange, mentre veniva dato maggior spazio politico a personalità di estrazione cattolica, specie dopo il Concordato con la Santa Sede (1953). Rimasero però sempre in vigore l'autorità assoluta del caudillo (che solo nel 1973 rinunciò alla carica di capo del governo per cederla a un suo fedelissimo, l'ammiraglio L. Carrero Blanco), il partito unico ribattezzato Movimento nazionale (nonostante dissensi sempre più palesi tra falangisti e monarchici), i tribunali militari con leggi ferree contro gli scioperi, le associazioni “illegali” ecc.; e inoltre la censura sulla stampa e il teatro, il sindacato “verticale” o statale, il predominio governativo dell'industria (INI), del commercio, del petrolio ecc. Un cauto passo in direzione liberale fu l'entrata in vigore della “legge organica”, approvata con referendum il 14 dicembre 1966. Tuttavia l'opposizione contro il regime trovò sempre più largo seguito tra vari strati della popolazione (operai, studenti, basso clero) e soprattutto nei Paesi Baschi (ad opera dell'ETA) e in Catalogna, dove più forti erano le istanze autonomistiche. Nel 1973 il primo ministro Carrero Blanco fu ucciso in un attentato rivendicato dall'ETA; lo sostituì C. Arias Navarro che accentuò l'indirizzo autoritario di un governo ormai agonizzante, bersaglio di indignate proteste da parte dei governi democratici di tutto il mondo.
Storia: il processo di democratizzazione dopo Franco (1975)
Il 20 novembre 1975 moriva Franco e gli succedeva il principe Juan Carlos, incoronato due giorni dopo re di Spagna. Cresciuto fino a quel momento all'ombra del caudillo, il nuovo re si trovò in una situazione molto difficile, con un apparato interamente franchista in un Paese che ormai da tempo non lo era più. Sostenuto moralmente, comunque, dalla maggioranza degli spagnoli, manovrò con abile moderazione allo smantellamento del regime autoritario, avendo come principali collaboratori dapprima lo stesso Arias Navarro e, dal luglio 1976, un “uomo nuovo”, A. Suárez. Forti di un primo e incoraggiante risultato conseguito nel referendum popolare del 14 dicembre 1976, il re e Suárez condussero il Paese alle elezioni del 16 giugno 1977 (le prime libere tenute in Spagna da 41 anni), nelle quali la coalizione centrista (UCD, Unione del Centro Democratico) dello stesso Suárez ottenne la maggioranza relativa. Questo risultato consentì una serie di riforme in senso democratico (amnistia per i reati politici, soppressione del Tribunale dell'Ordine Pubblico e del sindacato “verticale” unico, legalizzazione di tutti i partiti, compreso il comunista, riconoscimento dei sindacati dei lavoratori, libertà di stampa e di associazione, autonomia regionale ai Paesi Baschi, alla Galizia, all'Andalusia). Suárez, riconfermato dalle elezioni del 1979, diede inaspettatamente le dimissioni agli inizi del 1981; l'incarico di formare il nuovo governo fu affidato a L. Calvo Sotelo in uno dei momenti più difficili per il precario equilibrio di una democrazia in fase di costituzione. Il 23 febbraio 1981 vi fu infatti un tentativo di colpo di stato messo in atto dal tenente colonnello della Guardia Civile, A. Tejero, che alla testa di un gruppo di rivoltosi, invase il Parlamento. Le forze armate si dichiararono fedeli al re che in quel momento ebbe l'appoggio incondizionato di tutte le forze politiche. Dalla drammatica vicenda la democrazia usciva rafforzata, mentre aumentava di prestigio la personalità del re. In questo frangente Calvo Sotelo riusciva ad ottenere la fiducia del Parlamento e a formare il nuovo governo, che alla prova dei fatti si rivelò tuttavia incapace e incerto nel fronteggiare da una parte l'ingerenza politica delle forze armate, dall'altra la recrudescenza dell'offensiva terroristica. L'UCD, presentatasi smembrata e divisa al suo interno alle elezioni del 1982, fu infatti nettamente sconfitta dal Partito socialista (PSOE) di F. González Márquez, nuovo primo ministro di una compagine statale basata ormai su un bipartitismo: sinistra socialista con maggioranza assoluta al potere, destra di Alleanza popolare all'opposizione. Nel 1982 la Spagna entrava nella NATO, ma in un secondo tempo i socialisti decidevano di sottoporre la questione al giudizio degli elettori. Il 1º gennaio 1986 la Spagna, dopo anni di isolazionismo, entrava anche nella CEE assieme al suo dirimpettaio iberico, il Portogallo. La politica di risanamento economico, portata avanti da González nella seconda metà degli anni Ottanta, provocava il riavvicinamento del sindacato di ispirazione socialista UGT alle comuniste Comisiones Obreras, in funzione antigovernativa. Di fronte alle nuove difficoltà González ricorreva al voto anticipato e le urne, sia pure in modo ridotto, confermavano la maggioranza assoluta ai socialisti del PSOE (ottobre 1989). Nei primi anni Novanta il terrorismo dell'ETA che per altro aveva continuato a manifestarsi in modo virulento anche per tutto il decennio precedente, concedeva una breve tregua in occasione delle Olimpiadi svoltesi a Barcellona (1992), per riprendere subito dopo la sua propaganda di sangue. Il terrorismo, la recessione economica, alcuni scandali che avevano investito il PSOE, tutto concorreva a rendere incerte le elezioni del 1993 che i socialisti riuscivano a vincere, ma perdendo la maggioranza assoluta, mentre cresceva vistosamente la destra di I. Fraga (34,8%). González riusciva comunque a formare un nuovo esecutivo grazie ad un “patto di solidarietà” stretto con alcune forze autonomiste, disponibili a sostenere un governo a guida socialista. La fase decrescente del PSOE veniva però confermata nelle elezioni europee del 1994, quando per la prima volta i socialisti venivano superati dai popolari. Nel settembre 1995, indebolito da nuovi scandali e dal coinvolgimento di alcuni suoi esponenti nella vicenda dei GAL (formazioni parapoliziesche ritenute responsabili dell’uccisione, negli anni Ottanta, di numerosi membri dell’ETA) e messo in difficoltà dalla ripresa dell’offensiva terroristica dell’ETA, il governo González perdeva l’indispensabile sostegno parlamentare degli autonomisti catalani. Le elezioni politiche del marzo 1996 vedevano, quindi, da una parte la sconfitta del PSOE, che portava l’anno successivo González a rinunciare alla guida del partito in favore di J. Almunia, dall’altra la vittoria del Partito popolale (PP), guidato dal leader J. M. Aznar. Questi, postosi come obiettivo, oltre alla lotta al terrorismo dell’ETA, il risanamento dell’economia e la riduzione del deficit pubblico e dell’inflazione al fine di permettere alla Spagna di entrare a far parte del novero di Paesi che avrebbero adottato per primi l’euro, dopo lunghe trattative, con l'indispensabile appoggio alle Cortes dei partiti autonomisti basco e catalano, formava il nuovo governo. La questione federalista, comunque, si poneva sempre più come decisiva per il futuro della Spagna, soprattutto nel caso dei Paesi Baschi, per l’incidenza di un terrorismo che da decenni investiva l’intera nazione. L’atteggiamento intransigente del governo però non impediva il ripetersi di nuovi attentati, nonostante fosse condiviso da una parte sempre più consistente dell’opinione pubblica negli stessi Paesi Baschi, ferma nel dissociarsi dalle imprese dell’ETA. La questione basca, quindi, rappresentava uno dei nodi nevralgici dell'azione di governo che, dopo aver più volte respinto le proposte del Partito nazionalista basco (PNV), alla fine del 1998, in seguito alla tregua unilaterale proclamata dall'ETA, avviava difficili trattative per una soluzione di pace. Nel luglio 1999 venivano, infatti, liberati i 22 membri dell'Herri Batasuna, braccio politico dell'ETA, condannati nel 1997, ma, falliti i negoziati, in ottobre l’ETA proponeva al governo la ripresa del dialogo diretto, ricevendo in risposta un netto rifiuto che determinava la fine della tregua e la ripresa degli attentati dinamitardi. Nel frattempo il governo di Aznar, raggiunto l’obiettivo di far rientrare la Spagna tra i primi 11 Paesi che adottano l’euro dal gennaio 1999, nonostante la ripresa del terrorismo e l’emergere di scandali in cui restavano coinvolti esponenti di spicco dell’esecutivo, otteneva un nettissimo successo sia nel giugno 1999, quando il PP si confermava principale forza politica spagnola nelle consultazioni per il Parlamento Europeo, sia nel marzo 2000 conquistando la maggioranza assoluta alle Cortes nelle elezioni legislative.
Letteratura: dagli scrittori latini alla fine del sec. XI
Scrittori latini nati in Spagna (pagani o cristiani che fossero), quali Seneca, Lucano, Marziala, Quintiliano, Prudenzio e Orosio, vennero e vengono definiti spagnoli da storiografi iberici nazionalisti ma, a parte il luogo di nascita, non si vede che cosa ci sia di veramente ispanico in questi scrittori latini. Diverso fu invece il caso di Isidoro di Siviglia – massima e pressoché unica vetta culturale della Spagna visigota –, vissuto fra il sec. VI e VII, nelle cui opere, e specialmente in quelle storiche, sembra affiorare una certa coscienza di ispanità, come nella vasta enciclopedia filologica Etymologiarum libri XX dove si coglie l'intenzione di sottolineare le peculiarità ispaniche nel quadro della globale cultura latino-cristiana. I sec. VIII-XI sono caratterizzati da lunghe e confuse lotte e da una travagliata gestazione culturale. Quale eredità avessero lasciato i Germani (Visigoti e Svevi) nel sapere degli Ibero-Romani è difficile accertare. Secondo R. Menéndez Pidal, germaniche sarebbero le origini della futura epica castigliana e il “ciclo di Rodrigo”, per esempio, sarebbe nato addirittura nel sec. VIII, ossia subito dopo la scomparsa dell'ultimo re visigoto nella battaglia del Guadalete. Appare comunque certo che nella lingua romanza gli elementi germanici erano scarsi e se esistevano forme di poesia popolare non è sicuro che fossero sempre di origine germanica. È noto che gli invasori musulmani rispettarono, in genere, la religione, la lingua e i costumi dei loro sudditi cristiani (detti mozarabi) ed ebrei. Ma ben presto si andò affermando una ricca e splendida cultura musulmana che influì largamente sul pensiero e sull'arte d'Europa. I nomi di Ibn Rushd (l'Averroè degli scolastici e di Dante), Ibn Hazm , Ibn Masarra, Ibn al-!Arabi ecc. e degli ebrei Maimonide, Ibn Gebirol (l'Avicebron degli scolastici), Jehuda Halevi, poeta e filosofo, attestano l'ampiezza e la libertà di questa straordinaria fioritura intellettuale. Quanto alla poesia, il canzoniere tipicamente “meticcio” del cordovese Ibn Quzman (ca. 1080-1160), mentre anticipa forme e modi che saranno poi dei giullari europei, denuncia contatti con una tradizione poetica e popolare indigena, la cui esistenza è stata anche dimostrata dalla scoperta di liriche bilingui – in arabo, ma con “congedi” in protoromanzo iberico – risalenti fino al sec. XI, cioè anteriori alle più antiche liriche volgari europee finora conosciute. Quanto alla narrativa, basti ricordare la Disciplina clericalis di Pero Alfonso (un ebreo di Huesca battezzato nel 1106), raccolta di 33 apologhi tratti da fonti arabe, persiane e indiane, e trasmessi in tal modo alla posteriore narrativa europea. Pertanto, anche gli studiosi che non accolgono interamente la tesi radicale di A. Castro (secondo il quale non si può parlare di Spagna e di cultura spagnola se non dopo l'islamizzazione della penisola e come diretta conseguenza di essa) devono ammettere l'immensa importanza dei secoli di simbiosi e di scambi culturali arabo-ebraico-cristiani, durati almeno fino alla conquista dell'Andalusia mora da parte del re castigliano Ferdinando III (metà del sec. XIII), e accettare la definizione di Menéndez Pidal della Spagna come eslabón (anello di congiunzione) fra l'Islam e la cristianità medievale. Ne sono, del resto, diretta conferma anche le migliaia di vocaboli e di idiotismi di origine semitica tuttora esistenti nelle lingue ibero-romanze. Non meno decisivi, tuttavia, vanno considerati gli apporti ed esempi europei. Il latino, come lingua scritta e della cultura ufficiale della Chiesa e delle cancellerie, non cessò di essere usato nei piccoli regni cristiani sorti fin dal primo secolo dell'invasione araba sulla Cordigliera Cantabrica e lungo i Pirenei. I contatti fra questi regni e l'Europa “franca”, iniziati all'epoca carolingia con la creazione della Marca Ispanica (sec. VIII-IX), andarono intensificandosi soprattutto dopo il crollo del califfato di Cordova (1031), la nascita del regno di Castiglia e la conquista di Toledo da parte di Alfonso VI (1085); e mentre i monaci cluniacensi fondavano grandi monasteri, centri di cultura romana, nobili guerrieri e commercianti franchi collaboravano alle “crociate” castigliane e davano impulso ad attivi scambi commerciali.
Letteratura: dal XII alla fine del XIV secolo
Fatto capitale fu anche l'apertura della “strada di San Giacomo”, che per vari secoli (dal XII in poi) vide sfilare migliaia di pellegrini europei – fra cui, certo, anche affaristi e viaggiatori, letterati e giullari – diretti a Santiago de Compostela, divenuto uno dei centri della cristianità medievale. In tal modo, mentre presso le corti peninsulari si coltivava largamente la poesia trovadorica, anche a opera di sovrani quali Alfonso II d'Aragona, Dionigi di Portogallo e Alfonso X il Dotto di Castiglia (grande e illuminato patrono della cultura nazionale), i giullari divertivano il popolo sulle strade e sulle piazze; la Chiesa stessa, ostile dapprima alle mode mondane e all'uso delle lingue volgari, finì per comprendere l'utilità delle rappresentazioni liturgiche di Natale e della Settimana Santa e delle recite festive di poemi edificanti. Decaduta e quasi scomparsa la cultura del Mezzogiorno musulmano, la Spagna cristiana ebbe, quindi, parte non piccola nel grandioso fervore di rinascita che caratterizzò l'Europa occidentale dal sec. XI in avanti. Fra le tre principali lingue romanze, nate dal latino volgare e pervenute a livello artistico dal sec. XII in poi, il catalano mantenne più lunghi contatti con il Sud di Francia (dove i re aragonesi ebbero anche domini e interessi politici) e successivamente con l'Italia dell'umanesimo e del Rinascimento. Massimi rappresentanti della poesia catalana furono lo straordinario mistico francescano Raimondo Lullo (Ramón Llull), morto verso il 1315, e più tardi il lirico petrarchista Ausias March (ca. 1397-1459). Importante e originale fu anche la fioritura lirica in Galizia (sec. XIII-XV), a tal punto che persino Alfonso X di Castiglia, assertore convinto della superiorità del castigliano su tutte le lingue peninsulari (e sul latino stesso), compose in galiziano le proprie poesie: Cantigas de Santa María (Cantiche di Santa Maria). Ma presto il distacco del Portogallo dalla matrice galiziana, col conseguente inizio di una letteratura portoghese autonoma, e la supremazia politica castigliana fecero della Galizia una remota provincia senza storia. La Catalogna, fiorente Stato mediterraneo, resistette più a lungo, cioè fino all'unificazione spagnola (sec. XVI), dando anche col Tirant lo Blanch (ca. 1460) un primo esempio di romanzo cavalleresco. Ma poi la sua letteratura scomparve, per rinascere, come quella galiziana, solo nel sec. XIX. La prepotente dinamica delle vicende storiche fece, dunque, della Castiglia l'asse e il motore politico-civile della Reconquista e pertanto del castigliano – la più tardiva delle lingue romanze peninsulari, ma anche la più chiara, semplice e aperta – la lingua dominante negli atti pubblici, nella letteratura ufficiale (cronache e testi giuridici, come quelli compilati per ordine e sotto la personale direzione del re sapiente, Alfonso X, 1221-1284), e in quella creativa. Il primo e più interessante fenomeno di quest'ultima è senza dubbio l'epica. A parte l'intricata e forse irresolvibile questione delle origini (germaniche? arabe? franco-europee?), il pathos epico predominò talmente nel primitivo spirito castigliano che, dopo aver nutrito varie generazioni di giullari popolari – ai quali spetta il merito di aver trasfigurato in epica la figura storica del Cid Campeador, e non solo questa –, permeò di sé le cronache in prosa, penetrò persino nei dotti monasteri (dando origine ai poemi colti del mester de clerecía), rifiorì più tardi (sec. XIV-XVI) nel meraviglioso Romancero – multiforme e inesauribile “Iliade senza Omero”, secondo la famosa definizione romantica –, accompagnò le imprese della conquista di Granada (1492) e le incredibili prodezze d'America; e, dopo la nascita della Spagna imperiale, ispirò ancora poeti colti, drammaturghi, narratori storici e cavallereschi del Siglo de Oro, per calare poi a fondo fino agli anonimi autori di romances di banditi e gitani (sec. XVIII), di corridos messicani e di poemi gaucheschi argentini (anche il gaucho è, in fondo, un eroe epico), sopravvivendo nelle più disparate forme fino a tempi anche non troppo remoti. È chiaramente arbitrario ancorare tale disposizione epica a un non bene precisabile realismo, che sarebbe uno dei due caratteri fondamentali dell'intera letteratura spagnola (un irrealismo lirico e barocco, con epicentro nel Meridione moresco, sarebbe il secondo). Ma l'imponenza e la vastità, nel tempo e nello spazio, del fenomeno non è contestabile. Della primitiva epica giullaresca castigliana l'unico testo pervenutoci pressoché intatto è il Cantare del Cid, composto intorno al 1140, la cui importanza è capitale, anche a livello europeo. Ma le cronache recano tracce indubbie di altri cicli epici: la fine della Spagna visigota, le origini castigliane e la figura leggendaria di Fernán González, i Sette Infanti di Lara (truce storia di odi e vendette medievale, con la moresca Cordova sullo sfondo), la leggenda carolingia fino a Roncisvalle (con Bernardo del Carpio, sorta di anti-Orlando iberico) ecc.; temi tutti di larga fortuna. Quello del Cid, per esempio, riappare nel tardo Cantar de Rodrigo, centrato ormai sul romanzo degli amori con Jimena, in varie cronache, in centinaia di romances e in poemi colti (fino a Fernán Pérez de Guzmán e al cinquecentesco Jiménez Ayllón), per passare poi al teatro. Altri temi sono invece leggendari (campana di Huesca), o di storia più “moderna” (Poema de Alfonso XI, del trecentesco Yáñez). Ai secoli delle guerre di frontiera fra Castiglia e Mori di Granada (sec. XIV-XV) risalgono invece i più antichi testi del Romancero, divenuto poi il genere più popolare della letteratura spagnola (a tal punto che migliaia di romances sono stati raccolti dalla tradizione orale non solo in tutta la Spagna, ma anche in America e presso i sefarditi, ossia gli ebrei espulsi dalla Spagna nel 1492). Presto però (sec. XIII), accanto ai poemi giullareschi e talvolta sugli stessi argomenti, si andò sviluppando la poesia colta (mester de clerecía), che ha i suoi testi più rappresentativi nel Poema di Fernán González, in quelli romanzeschi di Alessandro Magno e di Apollonio (temi orientali divenuti europei attraverso la poesia francese) e soprattutto nei poemi religioso-narrativi di Gonzalo de Berceo – il primo poeta di nome noto –, un pio prete riojano educato nel monastero benedettino di Spagna Millán de la Cogolla e morto verso il 1265. I suoi Miraclos de Nuestra Señora sono un eccellente esempio di trapianto in Spagna dei temi della leggenda aurea, anch'essi poi di larga fortuna anche nella narrativa e nel teatro. Circa quest'ultimo, un solo frammento superstite dell'Auto de los Reyes Magos (Auto dei Re Magi), attribuito al sec. XIII, sta a dimostrare che si trattava di un genere di derivazione francese. Nel Medioevo spagnolo nulla lascia sospettare il prestigio favoloso che il teatro avrebbe avuto dal Cinquecento in avanti. Nel sec. XIV il carattere più saliente della letteratura castigliana fu la mudejarizzazione, ossia la fusione, in sintesi originale, di dati e generi di matrice orientale con dati europei: in sostanza, una sorta di meticciato culturale. Due personalità eccezionali emergono: un misterioso Juan Ruiz, arciprete di Hita, morto verso il 1350, e il principe Juan Manuel (1282-1348), nipote del grande re Alfonso X il Dotto. Sotto il nome del primo ci è pervenuta una singolarissima opera lirico-narrativo-satirica, il Libro de Buen Amor, oggetto tuttora di controversie critiche, ma in ogni caso di eccezionale importanza artistica e culturale e certamente una delle opere più originali dell'intero Medioevo europeo; il secondo lasciò una vasta opera in prosa, narrativa e storica, culminante nel Libro de Patronio o Conde Lucanor (Il conte Lucanor), collana di racconti morali, “incorniciati” al modo orientale e narrati con una gravità “principesca”, non senza qualche variegatura ironica che rivela, oltre a quella morale, l'intenzione artistica. Contemporaneo di Boccaccio e di G. Chaucer (che certo non conobbe), Juan Manuel è il terzo fondatore della narrativa europea. I primi influssi umanistici, avvertiti specialmente in Catalogna, e più concrete preoccupazioni politico-civili per le crisi europee e spagnole (guerra dei Cent'anni, grande scisma d'Occidente, tragedia di re Pietro I il Crudele) si riflettono variamente in altri – e minori – scrittori, quali il rabbino Sem Tob (ca. 1296-ca. 1369), autore di gravi e stoici Proverbios morales, e il cancelliere Pedro López de Ayala (1332-1407), di cui resta ammirevole la Crónica dei re di Castiglia, più del lungo poema Rimado de Palacio, di carattere didattico-morale.
Letteratura: il XV secolo
La crisi non fece che aggravarsi nel sec. XV, vero autunno del Medioevo, per la debolezza della dinastia dei Trastámara (sempre molto sensibile, peraltro, alle istanze culturali e amica di umanisti e poeti soprattutto all'epoca di re Giovanni II, 1419-54) e la crescente violenza delle discordie civili, che provocò alla fine del secolo la reazione autoritaria di Isabella la Cattolica. Fiorirono gli studi umanistici, sugli esempi italiani – traduzioni di testi classici, indagini filologiche ed estetiche (dall'Arte de Trovar, di Enrique de Villena, alla prima Grammatica castigliana, 1492, di Antonio de Nebrija), la letteratura storica, la poesia satirica fino a punte di estrema crudezza (Coplas del Provincial), gli studi religiosi dettati da un palese desiderio di rinnovamento spirituale e la lirica di raffinata eleganza “cortese”. Tra i moltissimi poeti minori (presenti soprattutto in raccolte antologiche, come il Cancionero de Baena, 1445, quello di Lope de Stuñiga, 1460, e altri fino al tardo Cancionero general, 1511, di Hernando del Castillo) emergono poeti colti, buoni conoscitori della poesia italiana, quali il marchese di Santillana (1398-1458), il citato umanista Enrique de Villena (1384-1434), Jorge Manrique (1440-1479), aristocratico, soldato, autore di una delle più belle liriche dell'intera letteratura spagnola (Coplas por la muerte de su padre, Stanze per la morte del padre), e Juan de Mena (1411-1456), educato in Italia e autore di poemi allegorico-morali (El laberinto de fortuna) validi soprattutto per la novità del linguaggio poetico. Notevoli testi di prosa, fra cui il satirico Corbacho (Corbaccio) di Alfonso Martínez de Toledo, arciprete di Talavera (1398-ca. 1482), e le belle Cronache di Hernando del Pulgar (ca. 1430-ca. 1493) completano il panorama del primo Rinascimento ispanico, ricco di fermenti vitali. La successiva età dei re cattolici, accentuando la rinascita religiosa – con testi in versi e in prosa di Íñigo de Mendoza (ca. 1425-1507), Ambrosio Montesino (ca. 1448-ca. 1512), Hernando de Talavera (1428-1507) e diversi altri –, impresse all'umanesimo castigliano uno spirito messianico di nazionalismo trionfalista, con inquietanti punte inquisitoriali e antisemite. Non tutto però fu ufficiale e conformista, in essa. Vi si svilupparono anche generi ben più liberi e artistici, come il teatro – di radici umanistiche, fra la dotta Salamanca e la piccola corte dei duchi di Alba, ad Alba de Tormes, per merito del poeta e musicista Juan del Encina (ca. 1468-1529) – e la narrativa romanzesca, di spiriti e strutture ben più moderne rispetto all'aneddotico racconto medievale. Diego de San Pedro, con la celebre Cárcel de Amor (1492) e Juan de Flores col Grimalte y Gradissa (ca. 1495) sono i creatori del romanzo psicologico-sentimentale (su radici italiane: la Fiammetta di Boccaccio, E. S. Piccolomini ecc.); mentre il romanzo cavalleresco e avventuroso, di chiari precedenti francesi, portoghesi e catalani (Tirant lo Blanch, “il miglior libro del mondo” secondo Miguel de Cervantes), ha un prodigioso rilancio in castigliano, grazie a uno dei libri più letti, ammirati e imitati del secolo: l'Amadigi di Gaula (1508).
Letteratura: gli umanisti
Ma proprio alla fine del secolo (Burgos, 1499) l'ebreo convertito e semiclandestino Fernando de Rojas (m. 1541) dava alla Spagna il suo primo capolavoro moderno: la Tragicomedia de Calixto y Melibea, detta poi La Celestina, dal nome del suo personaggio più nuovo e potente, una vecchia e spregiudicata mezzana che favorisce gli amori di due giovani impossibilitati a sposarsi (forse per pregiudizi religiosi e sociali), avviandoli a un catastrofico destino. Sorta di lungo romanzo dialogato e non rappresentabile, La Celestina presentava fin da principio diversi problemi critici, non tutti risolti. Ma l'originalità dell'opera – nonostante le evidenti fonti umanistiche e rinascimentali –, la sua feroce amoralità senza speranza, l'impressionante violenza delle passioni che vi si scatenano e della critica sociale che vi è sottesa, la totale icasticità dei personaggi, nobili o plebei che siano, oltre a farne qualcosa di artisticamente unico e irripetibile spiegano l'immensa e duratura fortuna che ebbe poi nel teatro e nella narrativa, e non soltanto in Spagna (ma anche, per esempio, nel dramma elisabettiano). Dalla Celestina all'inizio della Controriforma (il cui primo concreto connotato fu l'Indice dei libri proibiti, 1559, dell'inquisitore Juan de Valdés), la cultura spagnola visse un momento europeo di pienezza e vitalità rinascimentale. Gli stretti contatti con l'Italia determinarono una splendida fioritura del pensiero filosofico e religioso, degli studi classici, della poesia lirica, della narrativa e del teatro, favoriti dal mecenatismo di Carlo V, imperatore europeo, degli aristocratici e persino di dignitari ecclesiastici, come i cardinali Manrique – l'inquisitore generale che patrocinò, addirittura, l'edizione dell'Enchiridion di Erasmo, messo poi all'Indice nel 1559 –, A. de Fonseca e B. Carranza, quest'ultimo vittima egli stesso, più tardi, dell'Inquisizione. Fiorirono movimenti di rinascita spirituale, come quelli degli alumbrados (illuminati), degli erasmisti e dell'ascetismo francescano e domenicano, basi di quello che fu poi l'originale misticismo spagnolo fino a Santa Teresa e a San Giovanni della Croce. Fecondato da stimoli erasmiani, l'umanesimo religioso produsse figure di altissimo rilievo morale e intellettuale, come il filosofo e pedagogista Juan Luis Vives (1492-1540), i fratelli Alfonso (ca. 1490-1532) e Juan de Valdés (m. 1541), i grecisti Francisco (m. 1545) e Juan de Vergara (m. 1557), il geniale ed enigmatico Cristóbal de Villalón, i medici-filosofi Andrés Laguna (1499/1511-1559), probabile autore del Viaje de Turquía, e Francisco López de Villalobos (ca. 1473-1549), l'enciclopedico Francisco Sánchez de las Brozas, detto El Brocense (1523-1601), e molti altri, per culminare nel teologo, ebraista e sommo poeta Luis de León (1527-1591), “cristiano nuovo” (ossia discendente di ebrei), come molti di questi riformatori cattolici. La poesia lirica, rinnovata negli spiriti e nelle forme dagli esempi italiani, inizia col grande Garcilaso de la Vega (1503-1536), esempio perfetto di “cortegiano” del Rinascimento, un trionfale cammino ascendente su cui si mossero anche il citato Luis de León, Juan Boscán (ca. 1490-1542), il sivigliano Fernando de Herrera (1534-1597), Francisco de Aldana (1528-1578), Gutierre de Cetina (ca. 1520-1557), Cristóbal de Castillejo (1480/1490-1550), Baltasar del Alcázar (1530-1606), Jorge de Montemayor (ca. 1520-1561), Francisco de la Torre, Francisco de Figueroa (1536-1617), Hernando de Acuña (1520-1580), Bartolomé (1562-1631) e suo fratello Lupercio Leonardo de Argensola (1559-1613), Francisco de Medrano (1570-1607), Andrés Fernández de Andrada (considerato autore della stupenda Epístola moral a Fabio, ca. 1626), e diversi altri, fino al mistico carmelitano san Giovanni della Croce (1542-1591), il cui breve canzoniere, a parte il valore religioso illustrato dallo stesso poeta nei lunghi e densi commenti in prosa, tocca livelli altissimi di puro lirismo. Né meno interessanti furono gli sviluppi del teatro, in cui gli esempi dei comici italiani dell'Arte (più ancora che i testi umanistici e le traduzioni e imitazioni di Plauto, Terenzio e dei tragici greci) suscitarono continuatori originali quali Lope de Rueda (m. 1565), Juan de Timoneda (m. 1583) e Juan de la Cueva (ca. 1543-1610), oltre a Gil Vicente (ca. 1460-forse 1536) e Bartolomé de Torres Naharro (m. forse 1524), che operarono fuori di Spagna.
Letteratura: l'evolversi del filone morale-religioso e di quello narrativo
Senza tali precedenti resterebbe inspiegabile la grande rivoluzione teatrale iniziata intorno al 1580 da Cervantes e, più ancora, da Lope de Vega. Nella prosa, infine, nacquero dalla stessa matrice umanistica due filoni destinati poi a divergere: quello morale, storico e religioso, e quello narrativo. Il primo fu coltivato, con esiti vari, oltre che dai citati erasmisti (i quali spesso scrivevano ancora in latino, come Juan Luis Vives), da scrittori colti quali Antonio de Guevara (1480-1545), noto in Europa per le eleganti Epístolas e due brevi testi retorico-morali, il Relox de príncipes (Orologio di principi) e il Menosprecio de la corte y alabanza de aldea (Disdegno della corte ed elogio del villaggio); e inoltre da Diego Hurtado de Mendoza (1503-1575), autore di una classica Historia de la guerra de Granada; Pero Mexía (ca. 1499-1551) e Luis de Ávila y Zúñiga (1500-1573), storici di Carlo V; numerosi storici delle scoperte e conquiste americane, fra cui Hernán Cortés, conquistatore del Messico, Gonzalo Fernández de Oviedo (1478-1557), Francisco López de Gómara (1511-ca. 1562), Bernal Díaz del Castillo (1492-1581), la cui Verdadera historia de los sucesos de la conquista de la Nueva España è un autentico capolavoro, Francisco de Jerez (1504-1539), cronista di F. Pizarro, e altri. Ma ancora più folta è la schiera degli scrittori religiosi, ascetici e mistici, che annovera personalità di prim'ordine, quali Francisco de Osuna (1497-ca. 1540), il poeta fray Luis de León (autore anche del mirabile De los Nombres de Cristo), il santo Giovanni d'Ávila (ca. 1500-1569), il multiforme Luis de Granada (1504-1588), Diego de Estella (1524-1578), Giovanni degli Angeli (1536-ca. 1609), Alonso de Orozco (1500-1591), Pedro Malón de Chaide (ca. 1530-1589) e molti altri, fino alla straordinaria santa Teresa d'Ávila (1515-1582), riformatrice del Carmelo e scrittrice senza pari nell'autobiografia (Libro de su vida), nelle mistiche Moradas (Dimore), nell'epistolario e in altre opere di grande interesse storico e letterario. Il filone narrativo annovera vari generi: il romanzo cavalleresco, nato dall'Amadigi e continuato da decine di testi “commerciali” molto letti fino a Cervantes (che li superò di gran lunga col Don Chisciotte); il romanzo pastorale, nato dall'Arcadia di Iacopo Sannazaro, che culmina nella Diana (1558-59) di Jorge de Montemayor e nella Diana enamorada (1564) di Gaspar Gil Polo; il racconto moresco, con la Historia del Abencerraje y de la bermosa Jarifa (Storia dell'Abenceragio e della bella Jarifa) di Alonso de Villegas e Las guerras de Granada di Ginés Pérez de Hita (ca. 1544-ca. 1616); la novella italiana, trapiantata da Juan de Timoneda con El Patrañuelo (1567; Il raccontafavole) e infine la picaresca, iniziata nel 1554 da un breve e straordinario capolavoro di autore anonimo, il Lazarillo de Tormes, che rovesciava, per così dire, il trionfalismo della letteratura “imperiale” per narrare con realistica ironia (non disgiunta da umana pietà) e aperte intenzioni polemiche, la “biografia” niente affatto edificante di un misero proletario. A metà strada fra la Celestina e il Don Chisciotte, la Spagna del Rinascimento apriva col Lazarillo un'altra via nuova alle letterature europee. Ultimo – e minore – dato, nel quadro, molto ricco e vario, della Rinascenza ispanica, è il poema epico. Nata insieme dagli indimenticabili esempi classici e italiani (Virgilio, Ariosto, Tasso) e dalla realtà storica delle imprese spagnole in Europa e in America, l'ambizione epica tormentò numerosi poeti iberici, ma i risultati rimasero, in genere, molto al di sotto delle intenzioni, salvo che in un caso: quello dell'Araucana, di Alonso de Ercilla (1533-1594), che cantò prolissamente la conquista del Cile, alla quale il poeta prese parte. Il lungo regno di Filippo II (1556-98), in coincidenza con la Controriforma religiosa e la disperata lotta della Spagna contro nemici troppo forti (Inghilterra, Francia) per difendere domini troppo vasti, rappresentò l'inizio di un'involuzione culturale destinata a finire presto in aperta decadenza. Ciò non significò, tuttavia, la perdita di ogni facoltà creatrice, nella letteratura e nell'arte, ma i processi inquisitoriali, l'Indice dei libri proibiti, l'isolamento culturale dal resto d'Europa, l'orgoglio nazionalistico incoraggiato dalla retorica ufficiale, portarono inevitabilmente, a lungo andare, a un inaridimento spirituale, mentre la crisi economica – incomprensibile contrappasso della potenza imperiale spagnola – riempiva le strade di avventurieri e mendicanti (pícaros) e i conventi di desengañados.
Letteratura: il passaggio dal Rinascimento al Barocco
Isolato sullo spartiacque fra il luminoso meriggio rinascimentale e il triste crepuscolo manierista e barocco sta il più grande degli spagnoli: Miguel de Cervantes (1547-1616), che, per “dare conforto al cuore malinconico e umiliato” di un ex eroe di Lepanto e di Algeri ridotto a esattore di gabelle, scrisse il primo romanzo dell'epoca moderna, il Don Chisciotte, splendide novelle (Novelas ejemplares, Novelle esemplari) e intermezzi, molte opere teatrali (fra cui El cerco de Numancia, L'assedio di Numanzia) e due altri romanzi: La Galatea e Los trabajos de Persiles y Sigismunda (I travagli di Persile e Sigismonda). Quasi nello stesso momento, un altro e ben diverso genio, Lope de Vega (1562-1635), dava al teatro migliaia di commedie, scatenando un incredibile “tifo” popolare, e trovava modo di scrivere anche, fra le avventure non esemplari di una vita spericolata, vari canzonieri lirici, poemi lunghi, romanzi, novelle, nonché una nuova e barocca Celestina intitolata La Dorotea. Da lui aveva inizio un intero secolo di civiltà teatrale spagnola, che doveva chiudersi con la morte di Pedro Calderón de la Barca (1600-1681), dopo aver prodotto molti autori – diversi di primo piano quali Tirso de Molina (ca. 1584-1648), Juan Ruiz de Alarcón (ca. 1581-1639), Francisco de Rojas Zorrilla (1607-1648), l'oriundo italiano Agustín Moreto (1618-1669), Luis Quiñones de Benavente (ca. 1589-1651) e vari minori tra cui A. Cubillo de Aragón (ca. 1596-1661), Juan Bautista Diamante (1625-1687), Bances Candamo (1662-1704), Guillén de Castro y Bellvis (1569-1631), autore delle Mocedades del Cid (Le gesta giovanili del Cid), J. Pérez de Montalbán (1602-1638), autore di Los amantes de Teruel (Gli amanti di Teruel), L. Vélez de Guevara (1579-1644), A. Mira de Amescua (1574/77-1644), autore del Esclavo del demonio (Lo schiavo del demonio), Antonio de Solís y Rivadeneira (1610-1686), Antonio Coello y Ochoa (1611-1682) – e innumerevoli opere di ogni genere: drammi, commedie agiografiche, fantastiche, di “cappa e spada”, satiriche, intermezzi con o senza musica, fino agli autos sacramentales eucaristici e simbolici, che rappresentano il vertice della smisurata “macchina” teatrale barocca spagnola. In essa dovevano trovare – e ben lo si comprende – una vera miniera di temi, situazioni e personaggi, la maggior parte dei teatri europei, e in particolare il teatro classico francese (da P. Corneille a Molière), l'elisabettiano e l'italiano fino ai settecenteschi libretti d'opera e a Carlo Gozzi. Né meno importante fu, anche a livello europeo, l'altro genere tipico della Spagna barocca: la narrativa picaresca. Ripresa, dopo il lontano prototipo del Lazarillo, da Mateo Alemán (1547-ca. 1614), con il Guzmán de Alfarache, la picaresca fu successivamente continuata da altri, fra cui il grande Francisco de Quevedo y Villegas (1580-1645) con la Vida del buscón llamado don Pablos (Storia della vita del paltoniere chiamato don Paolo), Vicente Espinel (1550-1624), A. del Castillo Solórzano (1584-1648), F. López de Úbeba, Jerónimo de Alcalá (1563-1632), A. de Salas Barbadillo (1581-1635), Carlos García, A. Enríquez Gómez (1600-1663), Maria de Zayas y Sotomayor (1590-ca. 1661) ecc., sempre sulla linea realistica (biografia di un reietto della società, “servo di molti padroni”, deciso a “vivere” con qualsiasi mezzo e malgrado tutto e tutti), ma con varianti tonali che vanno dalla caricatura grottesca e iperrealistica alla palese intenzione di contestazione e protesta sociale, fino a una visione del mondo totalmente pessimista e nichilista. Il barocco spagnolo annovera anche moltissimi poeti, ma uno solo può e deve dirsi grande e nuovo: Francisco de Quevedo. Prosatore potente nel citato Buscón, come in altri testi satirici (Sueños, Sogni; La hora de todos), filosofico-morali (La cuna y la sepultura) e persino ascetici e devoti (vite di s. Paolo e di Bruto, Providencia de Dios ecc.), Quevedo esprime nelle sue liriche, con un linguaggio denso e intenso, superbamente modulato, una concezione coerente e sconsolata della vita e della storia, indulgendo spesso a un umorismo nero e spietato, ma capace anche di mirabili effusioni sentimentali. Accanto a lui, il suo nemico Luis de Góngora (1561-1627), famoso autore dei poemi Soledades (Le solitudini) e Polifemo e di un discusso canzoniere lirico, appare certamente abilissimo nell'uso di un raffinato linguaggio manieristico e nell'espressione di un mondo prezioso e favoloso, gremito di allusioni culturali incomprensibili allo spregiato “volgo ignorante”; ma anche di un'umanità meno ricca e meno sostanziale. Forse per questo Góngora ebbe numerosi imitatori (di un sempre più retorico barocchismo), mentre Quevedo non ne ebbe, e meglio resiste, d'altra parte, al tempo. Il Seicento ispanico si chiude con una serie di prosatori morali e religiosi, fra i quali emergono l'indocile gesuita Baltasar Gracián y Morales (1601-1658), maestro dell'agudeza (massima paradossale, sentenza pregnante), e il mistico quietista Miguel Molinos (1628-1696), che morì a Roma nelle carceri dell'Inquisizione. Nelle opere del primo (El héroe, El discreto – raccolte “monografiche” di agudezas –, e il romanzo allegorico El criticón, Il criticone), come, in modo diverso, nella Guía espiritual del secondo, culmina il pessimismo della Spagna barocca, stanca di se stessa e del mondo ostile. I rimedi proposti sono uno stoicismo aristocratico, intelligente e amaro (Gracián), o un Dio negativo, incomprensibile, molto simile all'abisso del Nulla, in cui l'anima viene esortata a immergersi (Molinos). Due vicoli senza uscita.
Letteratura: l'influenza dell'Illuminismo
Il sec. XVIII è, quindi, nei migliori spagnoli una volontà di “ricominciare da capo”, cioè di “riaprirsi” all'Europa e al mondo (il mondo, nel frattempo, era diventato più grande, per merito soprattutto della scienza); nei peggiori, e nelle masse, un adagiarsi nel “continuare” a vivere, con l'alibi ideologico del “rispetto delle tradizioni nazionali” e del “culto delle grandezze passate”. Un intelligentissimo benedettino galiziano, Benito Feijoo y Montenegro (1676-1764), aprì la via all'illuminismo spagnolo. Enciclopedico e razionalista, nemico quindi delle superstizioni, dell'ignoranza e di tutti i barocchismi (fondati, per lui, sulla menzogna, sul “non sentito” e quindi “non vero”), è però sempre un cristiano convinto e ottimista: usare la ragione non significa, per Feijoo, negare Dio, bensì al contrario glorificarlo. E criticare la Spagna vecchia, in ritardo sul resto d'Europa, vuol dire crearne una nuova, giovane e aperta al futuro (il sogno dei maggiori spagnoli venuti dopo di lui). Codesta volontà di rinnovamento, su basi critiche e moderne, dilagò, dopo Feijoo, in tutti i campi – la storia (E. Flórez, Muñoz, G. Mayans y Siscar, fino a Ferreras e J. F. Masdeu), l'estetica (I. de Luzán, 1702-1754), la critica d'arte (A. Ponz, 1725-1792) e letteraria (Diario de los Literatos e altri periodici; M. Sarmiento, 1695-1771; T. A. Sánchez, 1723-1802; A. Montiano, 1697-1764; L. Velázquez, 1722-1772), il teatro (R. de la Cruz, 1731-1794; J. Cadalso, 1741-1782; i due Moratín: Leandro, 1760-1828, e Nicolás, 1737-1780), la narrativa (J. F. de Isla, 1703-1781; P. Montengón, 1745-1824; I. Zamácola, 1756-1826), la pubblicistica, l'economia, le scienze giuridiche, la pedagogia (ossessione di tutti gli illuministi) – e si espresse soprattutto nel genere più caratteristico e originale del secolo: la saggistica. Saggisti sono infatti, in essenza, i due maggiori scrittori del secolo: il già citato José Cadalso e G. M. de Jovellanos (1744-1811), esemplari illuministi e talmente nuovi, nel pensiero come nella scrittura, che solo oggi si possono comprendere nel loro pieno significato. È quindi giusto e fondato parlare di un'autentica rinascita settecentesca dello spirito spagnolo, che coincide quasi esattamente col regno del buon re “napoletano” Carlo III (1759-1788), per declinare e offuscarsi all'epoca del suo imbelle successore Carlo IV (1788-1808), anche a causa dei gravi fatti storici (Rivoluzione francese, Impero napoleonico) in cui la Spagna si trovò, suo malgrado, coinvolta. E di fronte all'importanza di quel grande rinnovamento morale e culturale poco importa che la lirica e l'epica siano rimaste indietro, legate ancora ai modi barocchi o troppo vincolate a quelli arcadici; sicché, fra i moltissimi poeti del secolo, uno solo merita di essere ricordato, il languido e a momenti preromantico J. Meléndez Valdés (1754-1817).
Letteratura: Romanticismo e postromanticismo
Reinseritasi ormai nell'Europa, la Spagna nei sec. XIX e XX dovette seguirne, sia pure a modo suo, le vicende politiche, sociali e culturali. Certo, le reazioni tradizionaliste vi furono più forti, forse, che in altri Paesi, meno condizionati da glorie passate; il che spiega le molte guerre civili combattute nella penisola, dal 1808 (invasione napoleonica) al 1936-39, e fenomeni pressoché inauditi, per la loro ostinata persistenza, come l'integralismo carlista. E quando la minoranza liberale riuscì a imporsi (rivoluzione del 1868, prima effimera repubblica del 1873, seconda repubblica del 1931-36), essa venne presto sopraffatta non solo da un'estrema destra sempre agguerrita, ma anche da un'estrema sinistra anarchica, non meno utopistica e integralistica. Ciò tuttavia non significa che la Spagna sia diversa dal resto d'Europa. La storia culturale e artistica dimostra precisamente il contrario, cioè la sincronia dei moti, delle idee e dei gusti. A parte gli esiti singoli, infatti, non c'è dubbio che la letteratura spagnola del sec. XIX attraversò, nelle sue grandi linee, le stesse tre fasi europee: l'iniziale neoclassicismo, eredità dell'illuminismo settecentesco, non scevro peraltro di presentimenti romantici; il romanticismo, trionfante soprattutto dagli anni Venti ai Sessanta ca.; e il realismo positivista, dominante in pratica fin verso la fine del secolo. I corrispondenti generi preferiti furono: il saggio, la poesia civile e didattica, la narrativa e il teatro di costume (nella prima fase), la lirica “di sentimento personale, effusivo”, il dramma e il romanzo storici (seconda fase); il romanzo realistico e sociale e il teatro di idee e problemi etico-sociali (terza fase). A ciascuno di essi, puntualmente, si devono riferire nomi spagnoli. Con inevitabile sommarietà e sempre salvi, ripetiamo, gli esiti singoli, ecco i più significativi. Nella prima fase i saggisti e poeti J. M. Blanco White (1775-1841), M. J. Quintana (1772-1857), A. Lista y Aragón (1775-1848), J. J. de Mora (1783-1864); il saggista A. Alcalá Galiano (1789-1865); i commediografi F. Martínez de la Rosa (1787-1862), M. E. de Gorostiza (1789-1851) e M. Bretón de los Herreros (1796-1873); prosatori quali J. T. de Trueba y Cossío (1799-1835), S. Estébanez Calderón (1799-1867), R. de Mesonero Romanos (1803-1882) e altri, interessati ai costumi da punti di vista oscillanti fra il morale e il pittoresco, come in altro campo l'intermezzista andaluso J. I. González del Castillo (1763-1800). Seconda e sicuramente più brillante fase: lirici come J. de Espronceda (1808-1842) – certo il più importante, insieme a M. J. de Larra (1809-1837), della sua generazione –, M. de Cabanyes (1808-1833), G. Gómez de Avellaneda (1814-1873), C. Coronado (1823-1911), N. Pastor Díaz (1811-1863) e moltissimi altri, con una “seconda generazione” dominata da due poeti di forte personalità: il sivigliano G. A. Bécquer (1836-1870) e la galiziana R. de Castro (1837-1885); drammaturghi e autori di romances storici, quali A. de Saavedra, duca di Rivas (1791-1865) – il cui Don Álvaro o La Fuerza del sino (1835; Don Álvaro o La forza del destino) rimane come testo esemplare del teatro romantico –, A. García Gutiérrez (1813-1884), J. E. Hártzenbusch (1806-1880), J. Zorrilla (1817-1893), autore soprattutto del Don Juan Tenorio (1844), E. Gil y Carrasco (1815-1846), R. López Soler (1806-1836), e molti ancora; e infine saggisti e pubblicisti quali J. Donoso Cortés (1809-1853), J. Balmes (1810-1848) e soprattutto il già citato Larra, che meglio di ogni altro penetrò a fondo nella viva problematica del suo tempo, analizzandola con implacabile lucidità e col malinconico e civile umorismo che, prima di lui, solo Cervantes aveva portato, nella rappresentazione degli eterni casi del mondo. Finalmente, la terza fase presenta un romanziere e drammaturgo di statura europea, autore di oltre un centinaio fra romanzi e drammi: il canario B. Pérez Galdós (1843-1920) e, accanto a lui, narratori quali J. Valera (1824-1905), J. M. de Pereda (1833-1906), P. A. de Alarcón (1833-1891), J. O. Picón (1852-1923), J. Ortega y Munilla (1856-1922), Clarín (1852-1901), A. Palacio Valdés (1853-1938) e V. Blasco Ibáñez (1867-1928), con i quali il realismo narrativo penetra largamente nel sec. XX. Nello stesso tempo, drammaturghi moderni come E. Gaspar (1842-1902), M. Tamayo y Baus (1829-1898), il catalano A. Guimerá (1847-1924) e J. de Echegaray (1832-1916), e specialmente pensatori, critici e maestri come i krausisti J. Sanz del Río (1814-1869), F. Giner de los Ríos (1839-1915) e M. B. Cossío (1858-1935), il cattolico M. Menéndez Pelayo (1856-1912), i liberali J. Costa (1844-1911), Clarín, A. Ganivet (1865-1898), S. Ramón y Cajal (1852-1934), il socialista F. Pi y Margall (1824-1901) e molti altri, mettevano a raffronto, da vari punti di vista, i problemi spagnoli con quelli del mondo moderno, in uno sforzo coraggioso di aggiornamento e di critica costruttiva. Altrettanto vive e vitali appaiono, nell'insieme, le letterature regionali, e in particolare la catalana, caratterizzata soprattutto da una mirabile rinascita poetica con J. Verdaguer (1845-1902), M. Costa i Llobera (1854-1922), Mestres (1854-1936), il già citato Guimerá, J. Alcover i Maspons (1854-1926), J. Maragall i Gorina (1860-1911).
Letteratura: lineamenti generali della letteratura del XX secolo
Il sec. XX si apre con un fatto di enorme portata letteraria e morale: l'affermarsi della Generazione del '98, composta da scrittori di potente originalità, quali Miguel de Unamuno (1864-1936), poeta, saggista, romanziere e drammaturgo, il “prosatore d'arte” e critico Azorín (1873-1967), il romanziere P. Baroja (1872-1956), il romanziere e drammaturgo R. del Valle-Inclán (1866-1936), il drammaturgo J. Benavente (1866-1954), il saggista R. de Maetzu (1874-1936), e due lirici che avviarono una stupenda rinascita lirica per più generazioni successive: J. R. Jiménez (1881-1958) e A. Machado y Ruiz (1875-1939). Ciascuno a modo proprio, essi rappresentano in primo luogo la rivolta antipositivistica (e antirealistica) che caratterizza il clima culturale europeo di fine Ottocento; e senza alcun banale nazionalismo (i soliti tradizionalisti li accusarono persino di antiispanismo, come da Feijoo in poi era sempre accaduto ai più geniali innovatori e risvegliatori di coscienze), ne trassero stimoli e idee per la fondazione di una vasta e multiforme letteratura novecentesca di sostanza inconfondibilmente spagnola e – dato non meno importante – di alto livello artistico. Per questo si può affermare che le lettere ispaniche (nel più ampio senso del termine) nemmeno oggi hanno finito di “fare i conti” con quei “padri” (o, se si preferisce, “nonni”) novantottisti. Almeno tre altre generazioni sono finora succedute a essi: quella degli anni Venti o delle avanguardie, detta Generazione del '27; quella degli anni Quaranta, profondamente influenzata, in molti modi, dalla guerra civile del 1936-39, e quella degli anni Sessanta, molto più sensibile alle vicende artistiche e politico-sociali del mondo, non meno che a quelle particolari della Spagna. In puntuale sincronia, all'estetica simbolista-modernista sono succedute altre estetiche o ideologie: surrealista, neoclassicista, esistenzialista, neorealista, socialista, sperimentalista ecc., alle quali anche gli scrittori spagnoli si sono, più o meno, dimostrati ricettivi. Ciò però non ha mai impedito, nemmeno a quelli rimasti in patria (e quindi sottoposti a un regime politico tutt'altro che “liberale”, specie fra il 1923 e il 1931, e dal 1939 al 1975), di esprimere passioni, realtà e speranze “spagnole”, come con tanto vigorosa efficacia avevano fatto i novantottisti e i loro immediati successori ed epigoni, a cominciare dal filosofo J. Ortega y Gasset (1883-1955), maestro dei novecentisti del ‘27, e da altri “intermediari”, quali il romanziere-saggista R. Pérez de Ayala (1881-1962), il narratore-lirico G. Miró (1879-1930), il saggista E. d'Ors (1882-1954) e il geniale “inventore” neobarocco e proto-futurista R. Gómez de la Serna (1888-1963). Ecco ora i nomi più sicuramente eminenti degli scrittori delle tre ultime generazioni.
Letteratura: la generazione del '27
Quella del ‘27 si presenta, dapprima, come una meravigliosa fioritura lirica: gli andalusi F. García Lorca (1898-1936), R. Alberti (1902-1999), V. Aleixandre (1898-1984), E. Prados (1899-1962), L. Cernuda (1902-1963), M. Altolaguirre (1905-1959) e i castigliani P. Salinas (1892-1951), J. Guillén (1893-1984), G. Diego (1896-1987), D. Alonso (1898-1990) e J. Larrea (1895-1980), personalità diverse ma di statura poetica senza pari. Accanto a loro, sempre con formazione di avanguardia, operano prosatori d’arte, narratori, critici, saggisti, quali J. Bergamin (1897-1983), R. J. Sender (1902-1982), M. Aub (1903-1972), F. Ayala (n. 1906), M. Bacarisse (1895-1931), A. Espina (1894-1972), B. Jarnés (1888-1950), G. de Torre (1900-1972), R. Cansinos Asséns (1883-1964), E. Giménez Caballero (1899-1988), E. Montes (1897-1982), Corpus Barga (1892-1975), J. Arderíus (1890-1969), C. M. Arconada (1900-1964). Stranamente, questa straordinaria generazione è meno attirata dal teatro, in cui la novità più geniale del dopoguerra è rappresentata dall’esperpento del "vecchio" R. del Valle-Inclán (1866-1936), a parte qualche tentativo di "comico surreale" da parte di E. Jardiel Poncela (1901-1952), E. Neville (1899-1967), M. Mihura (1905-1977).
Letteratura: la letteratura del periodo franchista
Ma negli anni Trenta, lirici puri come i già citati Lorca e Alberti portano anche nel teatro un inizio di rinnovamento, troppo presto stroncato dalla guerra civile. Questa disperse la Generazione del ‘27, che, nella grande maggioranza dei casi, continuò a operare nell’esilio; ma prima si erano già manifestati nuovi e brillanti rincalzi lirici, quali M. Hernández (1910-1942), L. F. Vivanco (1907-1975), L. Rosales (1910-1992), L. Panero (1909-1962), A. Serrano Plaja (n. 1909), V. Crémer (n. 1910), G. Celaya (1911-1991) ecc., la cui opera confluì in quella della generazione successiva. Quest'ultima non ebbe certo vita facile, nel clima repressivo degli anni Quaranta, ma espresse da prima, instancabilmente, nuovi poeti quali D. Ridruejo (1912-1975), J. García Nieto (1914-2001), B. de Otero (1916-1979), J. L. Hidalgo (1919-1947), J. Hierro (n. 1922), R. Montesinos (n. 1920), C. Bousoño (n. 1923), G. Fuertes (1918-1998), L. de Luis (n. 1918), R. Morales (n. 1919), V. Gaos (n. 1919) e numerosi altri, per tentare poi anche la narrativa e il teatro, generi molto più vigilati dalla censura. Questa comunque non poté impedire la rivelazione di due capofila: il narratore C. J. Cela (1916-2002) e il drammaturgo A. Buero Vallejo (1916-2000), confermati maestri negli ultimi decenni. Da Cela discende almeno in parte la narrativa di tendenze sociali degli anni Cinquanta e Sessanta che annovera autori quali M. Delibes (n. 1920), A. M. Matute (n. 1926), C. Laforet (n. 1921), G. Torrente Ballester (1910-1999), Á. M. de Lera (1912-1984), J. M. Gironella (n. 1917), J. Bonet (n. 1917), P. de Lorenzo (n. 1917), J. L. Martín Vigil, J. L. Castillo Puche (n. 1919), E. Quiroga (1921-1995), R. Pinilla, L. M. Santos (1924-1964), I. Aldecoa (1925-1969), A. López Salinas (n. 1925), J. Fernández Santos (1926-1988), R. Sánchez Ferlosio (n. 1927), J. García Hortelano (1928-1992), A. Grosso (1928-1995), C. Rojas (n. 1928), A. Prieto (n. 1930); mentre fra i più giovani sono emersi J. Goytisolo (n. 1931), H. Vázquez Azpiri, J. Marsé (n. 1933), F. Umbral (n. 1935), J. Torbado (n. 1943), T. Moix (n. 1943). Nel teatro, dopo A. Buero Vallejo (1916-2000), che resta la personalità più forte e compiuta del dopoguerra, buone affermazioni hanno portato A. Sastre (n. 1926), drammaturgo apertamente impegnato, L. Olmo (1922-1994), C. Muñiz, J. Salom (n. 1925), A. Gala (n. 1937), J. Rodríguez Méndez (n. 1925), A. Diosdado (n. 1938), J. Rodríguez Budel, J. M. Recuerda (n. 1926) e altri, mentre la più facile commedia di divertimento, di blanda critica sociale o apertamente umoristica, è coltivata, tra gli altri, da A. Paso (1926-1978), J. J. Alonso Millán, C. Llopis, Jaime de Armiñán (n. 1935) ecc. Attivi e numerosi sono infine, sulla strada aperta dalla Generazione del ‘98, i pensatori, critici e saggisti delle più diverse e aggiornate tendenze: dai vecchi storici del passato spagnolo, tra cui A. Castro (1885-1972), C. Sánchez Albornoz (1893-1984), J. Vicéns Vives e i loro discepoli, ai continuatori più o meno diretti del pensiero orteghiano, tra cui J. Marías (n. 1914), P. Laín Entralgo (1908-2001), J. A. Maravall (1911-1986), F. Vela (1888-1960), P. Garagorri (n. 1916), J. Ferrater Mora (1912-1991), M. Zambrano (1907-1991), M. Granell (1906-1993), X. Zubiri (1898-1983), R. Xirau (n. 1924), J. Gaos (1902-1969); dai cattolici J. L. Aranguren (1909-1996), P. Sainz Rodríguez (1898-1986), J. M. González Ruiz, J. Ruiz Giménez, J. Lozano (n. 1930) ecc., ai positivisti e marxisti E. Tierno Galván (1918-1986), M. Sacristán (1925-1985), C. Castilla del Pino (n. 1922), C. París ecc., fino a una schiera sempre più folta di storici del mondo moderno e contemporaneo che comprende M. Tuñón de Lara (1915-1997), M. Artola (n. 1923), R. de la Cierva, economisti come R. Tamames (n. 1933), sociologi, critici letterari e artistici, pubblicisti, antropologi come J. Caro Baroja (1914-1995) ecc.
Letteratura: la letteratura postfranchista
Dalla fine degli anni Settanta la letteratura spagnola ha sperimentato in modo frenetico, data la situazione di orgogliosa marginalità in cui è stata costretta nei lunghi anni del franchismo, ogni modello, forma e tendenza della scrittura contemporanea. Durante gli anni Ottanta si riscoprono i temi politici, la letteratura erotica, la narrativa di genere (quella rosa o quella nera), spesso di qualità. Si restituisce agli esiliati, da M. Zambrano a M. Andujar (n. 1913), da J. Gil-Albert (1904-1994), a R. Alberti, la considerazione sottratta loro dal franchismo. Si finanziano - da canali istituzionali - compagnie e collettivi di teatro "indipendente"; la qual cosa avvantaggerà in modo particolare la drammaturgia catalana, assai avanti in iniziative del genere. Si intensifica l’attività editoriale, libera finalmente da censura e stimolata da un pubblico avido di novità. Coesistono, in questo periodo, cinque o sei gruppi generazionali. Sono, in primo luogo, ancora influenti i grandi nomi della Generazione del ‘27, come R. Alberti che negli anni Novanta ha pubblicato una lunga serie di testi autobiografici, saggi, articoli e poemi riuniti nei due volumi di La arboleda perdida (L'albereto perduto), F. Ayala, J. López Rubio (1903-1996), R. Chacel (1898-1994). Accanto a essi, in una posizione più incisiva e attivamente propositiva, troviamo i rappresentanti della prima grande generazione del dopoguerra, da G. Torrente Ballester (1910-1999) al già citato C. J. Cela, vincitore nel 1989 del Premio Nobel, e M. Delibes (n. 1920). La loro produzione è di altissimo livello, per ricerca stilistica e immaginazione creativa; probabilmente quanto di più prezioso e di sicuramente duraturo si produca oggi in campo narrativo. Di Torrente Ballester ha visto la luce una splendida serie di romanzi, da La rosa de los vientos (1984; La rosa dei venti) a Yo no soy yo, evidentemente (1987; Non sono me stesso, evidentemente) Filomeno a mi pesar (1988; Ahimè sono Filomeno), Crónica del rey pasmado (1989; Cronaca del re stupito), La boda de Chon Recalde (1995; Il matrimonio di Chon Recalde). Di Delibes si segnalano capolavori come Los Santos inocentes (1981; I santi innocenti), Cartas de amor de un sexagenario voluptuoso (1983; Lettere d'amore di un sessantenne voluttuoso), Señora de rojo sobre fondo gris (1991; Signora in rosso su uno sfondo grigio), Diario de un jubilado (1995; Diario di un pensionato), He dicho (1997; Ho detto), El hereje (1999; L'eretico). Di Cela, Mazurca para dos muertos (1983; Mazurca per due morti), Cristo versus Arizona (1988), La cruz de San Andrés (1994), El asesinato del perdedor (1994; L'assassinio del perdente), Madera de Boj (1999; Legno di bosso). In poesia, dopo la morte di G. Celaya (1911-1991), B. de Otero (1916-1979), V. Aleixandre (1898-1984) e L. Rosales (1910-1992), sono J. Hierro (n. 1922) - con Agenda (1991) e Cuaderno de Nueva York (1998) - e C. Bousoño - con due importanti sillogi come Metáfora del desafuero (1988; Metafora del sacrilegio), e El martillo en el yunque (1997; Il martello sull'incudine) - i maestri venerati dalla lirica attuale, mentre in campo saggistico l’attenzione si disloca su J. Marías (n. 1914) e P. Laín Entralgo (1908-2001). Tra gli scrittori del dopoguerra va incluso J. Semprún (n. 1923), esule in Francia e deportato in Germania per aver partecipato alla resistenza francese. Esponente della Spagna postfranchista come ministro della cultura nel governo Gonzales (1988-1991), ha scritto in lingua francese, tra gli altri, i libri L’evanouissement (1967; Evanescenza), Netchaiev est de retour (1987; Il ritorno di Netchaiev), ispirati all’antifranchismo e alle sue esperienze di prigioniero, L’écriture et la vie (1994), Mal et modernité (1995) e Se taire est impossible (1996; Tacere è impossibile). Altro autore importante come ponte per la generazione successiva è infine F. Nieva (n. 1927), artista integrale, poeta, drammaturgo (tra gli ultimi eccellenti lavori citiamo Oceánida, 1996, e Centón de teatro, 1997, Centone teatrale) e ora anche romanziere (con El viaje a Pantaélica, 1994, Viaggio a Pantaèlica e La llama vestida de negro, 1995, La fiamma vestita di nero) in grado di combinare sperimentalismo e classicismo, modelli tradizionali e linguaggi moderni, poesia e tecnologia. A questo gruppo di maestri fanno subito seguito i discepoli eccellenti, come i romanzieri J. García Hortelano (1928-1992), J. Benet (1927-1993), autore di un ciclo di romanzi memorabili sulla guerra civile (Herrumbrosas lanzas, 1983, 1985, 1986, Lance arruginite), il poeta J. Gil de Biedma (1929-1990), - tutti e tre prematuramente scomparsi dalla scena letteraria e a loro volta guide preziose per i romanzieri e i poeti più giovani - e via via tutti coloro che hanno occupato una posizione di rilievo nella prosa e nella lirica degli anni Sessanta. In campo narrativo spiccano i nomi dei neorealisti R. Sánchez Ferlosio (n. 1927) con una prosa sempre più meditativa e apocalittica, e J. Marsé (n. 1933) con El amante bilingüe; quelli di A. M. Matute (n. 1926) e C. Martín Gaite (1925-2000) con la loro letteratura di testimonianza e di frontiera tra realismo sociale e realismo magico - da La torre vigía (1971; La torre d'osservazione) della prima a Lo raro es vivir (1996; L'assurdo è vivere) della seconda -; quello di J. Goytisolo (n. 1931), per la sua ferma coscienza critica (da Makbara, 1980 a El sitio de los sitios, 1995, Il luogo dei luoghi). In campo poetico sono senz’altro esemplari i tracciati poetici di J. A. Valente (1929-2000) - da Material memoria, 1979, a Nadie, 1996, Nessuno - C. Rodríguez (1934-1999) - con Desde mis poemas, 1983, Dalle mie poesie - A. González (n. 1925), J. A. Goytisolo (1928-1999). Irrompono infine i Novísimos, nove giovani poeti spagnoli - alcuni dei quali, come F. de Azúa (n. 1944), V. Molina Foix (n. 1946), M. Vázquez Montalbán (n. 1939), A. M. Moix (n. 1947), offriranno contributi eccellenti anche in prosa - presentati dal critico J. M. Castellet come la nuova proposta lirica della Spagna degli anni Settanta.
Archeologia
Ampi sono i ritrovamenti dell'Età del Ferro, in cui comparve la ricca civiltà iberica, ampiamente diffusa nella Spagna dell'Est e del Sud. La civiltà greca è testimoniata soprattutto ad Ampurias, dove è stato scavato – accanto alla più tarda città romana di Emporiae – l'abitato greco della Néa Pólis con l'agorá, edifici pubblici e case private; da Ampurias vengono pregevoli vasi greci figurati La presenza dei Fenici e poi dei Cartaginesi è documentata da alcune necropoli, tra cui quella di Cádice (città che sembra conservare l'impianto urbanistico fenicio-punico) e di Ibiza nelle Baleari (dove il santuario rupestre di Cueva d'es Cuyram ha dato molte statuette fittili); i ritrovamenti consistono in statuette, avori, amuleti, paste vitree, gioielli. Notevolissimi sono i resti della Spagna romana. Centri archeologici sono, oltre che Emporiae, Sagunto, con resti iberici nel “Castillo” e un bel teatro romano; Italica (anfiteatro, terme, case, oltre a vari reperti esposti al Museo di Siviglia); Numanzia, dove i resti della città romana, interessante per il suo impianto urbanistico, si sovrappongono a quelli della città celtiberica (materiali al Museo di Soria, tra cui interessanti vasi dipinti). Importanti complessi monumentali sono a Tarragona (Tarraco), che conserva il suo imponente circuito di mura di due diverse epoche e i resti del Palacio de Augusto, e a Mérida (Emerita Augusta), con teatro, anfiteatro, lungo ponte sulla Guadiana (in parte rifatto) e arco di Traiano. Archi onorari sono anche a Bará sulla via romana da Barcellona a Tarragona, e a Medinaceli (Oscilis); un grande palazzo romano è stato scavato a Clunia Sulpicia, le cui rovine sono presso Coruña del Conde nella Vecchia Castiglia. A Carmona (Carmo) è un'importante necropoli romana, a Vich (Ausa) un tempio molto alterato. Imponenti opere di ingegneria dei sec. I e II d. C. sono i ponti di Salamanca (in parte rifatto) preceduto da un toro iberico, di Martorell presso Barcellona con archi trionfali, e quello famoso di Traiano sul Tago ad Alcántara, con arco trionfale al centro e piccolo tempio all'imbocco. Più numerosi che in altre province romane sono gli acquedotti (chiamati talora “ponti del diavolo” o “dei miracoli”) tra cui quelli di Calahorra (Calagurris Nassica, patria di Quintiliano), di Siviglia, di Chelvez presso Valencia con ponte a tre arcate; di Tarragona, di Mérida con grandi bacini d'acque; il maggiore è a Segovia, con lungo e alto ponte di pietra a più ordini di arcate. Della fine del sec. III e del sec. IV sono le mura costruite per resistere alle invasioni barbariche: resti imponenti si conservano a Saragozza (Caesaraugusta), a Barcellona (Barcíno, dove sono anche avanzi monumentali di terme e di altri edifici pubblici e privati) e soprattutto a Coria (Caurium) e a Lugo (Lucus Augusti); le cinte sono fortificate da solidi torrioni. Nel campo delle arti figurative (statue, rilievi, ritratti; notevoli anche i mosaici) la Spagna è tra le province romane più vicine all'arte di Roma, soprattutto per le opere della Betica e per Mérida, che fu sede di officine scultoree; in qualche altra regione sono più evidenti persistenze iberiche e celtiche. Di notevole importanza è anche il patrimonio epigrafico.
Arte: dal periodo paleocristiano al X secolo
Scarse sono le testimonianze dell'architettura paleocristiana, mentre più significativi sono, nei sec. IV e V, gli esempi offerti dalla scultura (statue del Buon Pastore, sarcofagi scolpiti) e dai mosaici (Tarragona, Maiorca, Huesca), alcuni dei quali rivelano influssi nordafricani. Durante il periodo visigotico (sec. V-VII) il confluire di influssi nordafricani (soprattutto nella Betica) e bizantini portò al lento sviluppo di un'arte preromanica spagnola. Ai sec. V-VI risalgono le chiese di Aljezares (Murcia) e S. Pedro de Alcántara (Málaga); più numerose quelle del sec. VII, caratterizzate da una massiccia struttura muraria e da absidi rettangolari (S. Juan de Baños a Palencia; S. Pedro de la Mata a Toledo; S. Pedro de la Nave a Zamora). La scultura nel periodo visigotico ebbe una funzione esclusivamente decorativa, connessa all'architettura, con prevalenza di motivi geometrici e presenza di elementi orientali, che si notano sia nei sarcofagi (da Burgos, Oviedo ecc.) sia in alcuni tipi di capitelli. Elevato il livello qualitativo delle arti minori, soprattutto dell'oreficeria, nella quale si nota il progressivo trasformarsi del gusto barbarico sotto gli influssi bizantini (tesori di Guarrazar e di Torredonjimeno, i cui esemplari sono oggi nei musei di Madrid, Parigi, Barcellona, Cordova). L'invasione araba (sec. VIII) divise in due parti la Spagna , con importanti conseguenze culturali e artistiche. Negli Stati cristiani del Nord la tradizione visigotica si sviluppò nell'arte asturiana, con manifestazioni destinate poi a confluire nel più vasto ambito del romanico. Il più antico esempio di arte asturiana è la chiesa di Santiañes de Pravia (774-783), ma le sue più importanti manifestazioni si ebbero durante il regno di Ramiro I (842-850), con le chiese di S. Maria de Naranco, S. Miguel de Lillo, S. Cristina de Lena, tutte nei pressi di Oviedo. Queste chiese, coperte a volta, con contrafforti e grandi finestre, presentano una decorazione scultorea di tipo orientale e notevoli affreschi (importanti soprattutto quelli della chiesa di S. Julián de los Prados). L'arte asturiana continuò, con manifestazioni di minore importanza, fino al sec. X; l'oreficeria religiosa di questo periodo si distingue per alcuni capolavori, conservati nella Camera Santa di Oviedo, che ricordano il contemporaneo stile ottoniano. Nelle regioni meridionale della Spagna , dominate da regni islamici, si sviluppò fino al sec. XV l'arte moresca, con una straordinaria fioritura destinata a lasciare importanti tracce anche dopo la riconquista cristiana nella cosiddetta arte mudéjar. Molti degli edifici ispano-moreschi sono scomparsi a causa delle distruzioni operate dalla Reconquista o di successive trasformazioni. I principali monumenti rimasti, dalla moschea di Cordova (sec. VIII-X)all'Alhambra di Granada, agli Alcázar di Siviglia e Toledo, appaiono di altissima qualità, anche se non si può parlare in senso stretto di un'arte locale, dato che gli elementi architettonici fondamentali appaiono simili a quelli degli altri Paesi arabi. Notevolissimo fu l'apporto della cultura islamica nel campo delle arti minori: nel mobilio, nella lavorazione dei metalli (niellati, cesellati), nelle armi (Saragozza, Toledo, Granada), nel cuoio stampato (Cordova), nei tappeti, nei vetri smaltati e dorati e soprattutto nelle famose maioliche smaltate a lustro metallico. Nei sec. IX-XI, nei territori di dominazione musulmana fiorì anche la cosiddetta arte mozarabica, cioè un'arte cristiana fortemente permeata di elementi islamici, come si nota nell'uso dell'arco a ferro di cavallo. Tra le varie chiese rimaste si ricordano S. Miguel de Escalada (León), Santiago de Peñalba (León), S. Millán de la Cogolla (Logroño), S. María de Melque (Toledo). Fiorente anche la produzione di codici miniati (Apocalisse del Beato di Lievana, opera di Magio, sec. X).
Arte: dall'XI al XV secolo
Nel sec. XI iniziò lo sviluppo, nella Spagna settentrionale, del romanico, legato agli sviluppi della Francia settentrionale, che diede unità alle manifestazioni artistiche dei regni cristiani spagnoli. Caratterizzato dall'impiego dell'arco a tutto sesto, dalla pianta basilicale cruciforme, dalla copertura con volta a botte, dalle absidi semicircolari, il romanico fu favorito nella sua diffusione dai pellegrinaggi a Santiago de Compostela, sul cui percorso sorsero la cattedrale di Jaca (Aragona), le chiese di S. Salvador de Leyre (Navarra), di S. Isidoro di León e la stessa cattedrale di Santiago nella Galizia. Esempi di un romanico più vicino alle forme provenzali si ebbero in Catalogna (S. Pedro de Roda, S. Vicente de Cardona). In origine le chiese romaniche erano ampiamente affrescate (ciclo del Panteón de los Reyes in S. Isidoro di León). Nel Museo de Bellas Artes de Cataluña di Barcellona si trovano dipinti murali provenienti da S. Quirico di Pedret, S. Maria di Tahull, S. Maria d'Aneu ecc.; al Prado di Madrid affreschi da S. Baudilio di Berlanga, dalla Ermita de la Cruz di Maderuelo. Nel campo della scultura, accanto a quella decorativa (capitelli floreali o istoriati, rilievi di portali ecc.), si affermò la statuaria devozionale in legno policromo. Lo stile romanico non mancò spesso di arricchirsi di elementi della tradizione moresca e mozarabica (cattedrali di Zamora e di Salamanca; basilica di S. Vicente d'Ávila) dando luogo fin dal sec. XII al formarsi dei primi esempi di arte mudéjar, che rappresenta appunto l'interpretazione spagnola degli stili romanico prima, gotico successivamente. Con la fondazione del monastero di Moreruela (Zamora, 1131) venne introdotta in Spagna l'austera architettura cistercense, caratterizzata dall'impiego dell'arco a sesto acuto, dalle volte a crociera, dalle absidi quadrangolari, dall'accentuato verticalismo. Le prime costruzioni propriamente gotiche, pur nella persistenza di elementi romanici, sono le cattedrali di Ávila e di Cuenca (sec. XII-XIII), ispirate al gotico borgognone e modelli per le tre grandi cattedrali successive di Burgos, Toledo e León, tutte erette nel corso del sec. XIII. Nei sec. XIV e XV il gotico in Castiglia assunse una caratterizzazione regionale che si manifestò con una particolare esuberanza decorativa (si parla infatti di gotico mudéjar), che prelude al plateresco. In Catalogna, Aragona e Valencia invece, regioni più indipendenti dagli influssi della Francia settentrionale e più legate culturalmente alla Provenza e all'Italia, vi fu dapprima un attardamento su forme romaniche (cattedrali di Lérida e Tarragona), quindi prevalsero, nell'ambito del gotico, strutture più semplici e proporzionate (sec. XIV: cattedrali di Barcellona, Gerona, Palma di Maiorca, Manresa, Tortosa; chiesa di S. Maria del Mar). Fiorente durante tutta l'età gotica fu la scultura, sia decorativa sia funeraria. Fra i maggiori artisti può ricordarsi maestro Bartolomé, attivo fra i sec. XIII-XIV nella cattedrale di Tarragona. La Catalogna, grazie ai contatti con la Francia meridionale e l'Italia, fu aperta agli influssi della pittura toscana, soprattutto senese (Ferrer Bassá, Ramón Destorrens, fratelli Serra), ma anche nella Castiglia e nel León si diffuse la lezione italiana. Nel corso della prima metà del sec. XVI l'arte spagnola conobbe un grande sviluppo e una profonda evoluzione. Le due regioni nelle quali massimo fu lo splendore artistico sono la Castiglia e l'Andalusia, per preminenza politica e florida condizione economica. In architettura lo stile predominante fu il plateresco, alla cui formazione contribuirono elementi del gotico mudéjar e del Rinascimento italiano e che fu caratterizzato da una straordinaria vivacità decorativa. Le città in cui più notevoli sono le testimonianze di questo stile sono Burgos, León, Salamanca, Segovia, Toledo, Valladolid, dove furono attivi i maggiori esponenti dell'architettura del tempo: A. De Covarrubias, R. G. de Hontañón, L. Vázquez. Solo nella seconda metà del secolo, con l'avvento al trono di Filippo II, e in corrispondenza del purismo controriformistico, venne introdotto massicciamente un severo stile classicista, di derivazione manierista, che trovò il suo massimo esempio nell'Escorial di J. De Herrera. Un processo analogo a quello dell'architettura si svolse nel campo delle arti figurative, che conobbero un grande rigoglio. La scultura si sviluppò in varie scuole locali, tutte variamente sensibili ad apporti italiani e francesi, sempre però rielaborati in un linguaggio nazionale di grande esuberanza ornamentale. Maestri italiani come Domenico di Alessandro Farnese e, in seguito, Leoni Pompeo e Leone Leoni, attivi presso la corte, esercitarono una sensibile influenza su molti artisti locali, mentre vari scultori spagnoli appresero in Italia le basi della loro arte: fra i maggiori, A. Berruguete (Toledo), B. Ordoñez (Barcellona), D. de Siloé (Granada). Nel campo della pittura determinanti furono gli influssi fiamminghi e italiani. L'attività in Andalusia di personalità come P. de Campaña, F. Sturm e F. Frutet, assieme ai viaggi nei Paesi Bassi compiuti da artisti spagnoli, favorirono dapprima il predominio della corrente ispano-fiamminga, rappresentata da L. Dalmau e, in Castiglia (dove l'influsso fiammingo fu più durevole), da J. Inglés, dal Maestro di Sopetrán, da J. de Flandes, corrente che fu anche fondamentale per la formazione dei due maggiori pittori del periodo: B. Bermejo e P. Berruguete. Successivamente prevalsero però gli orientamenti italianeggianti per la mediazione di artisti quali J. de Borgoña (Toledo), F. de Llanos e F. Yáñez de la Almedina, formatisi in Italia e sensibili a influssi leonardeschi e raffaelleschi. La costruzione dell'Escorial richiamò numerosi artisti di varia provenienza ma soprattutto i manieristi italiani L. Cambiaso, P. Tibaldi, F. Zuccari, che confermarono il predominio italiano alla corte di Filippo II. Tuttavia i due massimi pittori attivi in Spagna nella seconda metà del sec. XVI furono due stranieri: El Greco, che non ebbe però che pochi seguaci, e A. Moro, che contribuì all'affermazione del realismo nella ritrattistica. Da segnalare, in età rinascimentale, anche la fioritura delle arti minori, particolarmente dell'oreficeria religiosa e del ricamo. In Castiglia alla fine del sec. XV si eseguirono infatti ricami di grande fastosità ornati di perle e pietre preziose (pianeta di Isabella la Cattolica, manto della Vergine del Sagrario), secondo un gusto decorativo che si accentuò nel Cinquecento e nel Seicento con il ricamo a forte rilievo, il lavoro di applicazione di velluto su raso a colori vivaci e la profusione di lustrini d'oro e d'argento.
Arte: dal XVI secolo alla seconda guerra mondiale
Nei sec. XVI-XVII-XVIII conobbe una grande fioritura anche l'arte vetraria. La produzione catalana, caratterizzata dalla decorazione a smalto, si distingue per i colori densi e vivaci e gli schemi decorativi ispano-moreschi. Tra le più tipiche forme di recipienti si ricordano l'almorrata (a più becchi), il porrón (bottiglia-bicchiere con lunghissimo becco), il cantír o cantaro (bottiglia-bicchiere con due becchi opposti e manico superiore ad anello), tutti prodotti in Catalogna e a Valencia; caratteristici dell'Andalusia gli jarritos, vasi bassi e panciuti con lungo collo a tromba e manici ornati a creste. Col finire del sec. XVI si posero le premesse dello sviluppo della nuova arte barocca, che ebbe in Spagna lunga vitalità e durata prolungandosi fino alla fine del sec. XVIII, sia pure attraverso diverse fasi. Massimo centro culturale e artistico continuò a essere Madrid, sia per la presenza stimolante della corte, grande committente e collezionista, sia per il proseguimento dei lavori dell'Escorial. Accanto alle grandi realizzazioni religiose (chiese e conventi) e pubbliche (Palazzo della Granja, Palazzo Reale di Madrid, ampliamento del Prado), notevoli furono le sistemazioni urbanistiche, come quella della Plaza Mayor di Madrid (J. Gómez) e, nel sec. XVIII, di Aranjuez. Tra le scuole regionali in cui si differenziò il barocco, celebri quelle di Madrid, di Granada, di Galizia (D. de Andrade) e soprattutto quella di Salamanca dove furono attivi i Churriguera, dal cui stile di straordinaria fastosità ed esuberanza prese origine una vera e propria corrente architettonica. Anche la scultura secentesca fu in larga prevalenza religiosa e in ossequio alla precettistica controriformista si fece realista e patetica, con risultati sovente deteriori. Le scuole più vivaci furono quelle di G. Fernández, a Valladolid, e quella sivigliana, mentre più originale e isolata fu l'attività di A. Cano. Di altissimo livello fu la pittura del sec. XVII. L'influsso italiano, in particolare di Caravaggio, provocò il nascere di una scuola realistica, caratterizzata da un vivace senso luministico, che ebbe tra i suoi maggiori esponenti J. Ribera, che fu attivo a Napoli. D. Velázquez fu tra i protagonisti della pittura secentesca europea e diede vita, a Madrid, a un'attivissima scuola. Altri artisti madrileni furono fortemente influenzati dalla feconda attività spagnola di L. Giordano. In certa misura separata è la scuola sivigliana, che in F. de Zurbarán ebbe un artista di profonda e austera religiosità e in B. E. Murillo un felice esponente della pittura religiosa popolareggiante. Il sec. XVIII vide il proseguire, più stanco, dei grandi motivi dell'arte secentesca, sia nell'architettura sia nella decorazione. Solo con la seconda metà del secolo (fondazione dell'Accademia di S. Fernando a Madrid, 1752) venne lentamente introducendosi il gusto neoclassico, che incontrò tuttavia molte resistenze e restò a lungo limitato alla capitale (Palazzo del Prado, chiesa di S. Francisco el Grande). Anche nel campo della scultura gli interessi neoclassici furono accentrati a Madrid, mentre gli altri centri spagnoli restarono legati al decorativismo barocco. La seconda metà del sec. XVIII costituì dunque soprattutto un periodo di transizione verso la piena affermazione nel neoclassico, avvenuta soltanto nell'Ottocento. Assai stimolante, per ciò che riguarda la pittura, la presenza di G. Tiepolo e dei suoi figli, di C. Giaquinto e soprattutto di A. R. Mengs, che lasciò larga traccia. Del tutto isolata invece la potente personalità di F. Goya, esempio di un profondo rinnovamento stilistico e morale. Per tutto il sec. XIX e l'inizio del XX l'architettura fu caratterizzata da una coesistenza di orientamenti stilistici, da quelli neoclassici e accademici a quelli eclettici, di gusto romantico. Modesta nel complesso la scultura dove, dopo una fase accademica, si affermò il realismo, in parte di ispirazione tradizionale. In pittura si svilupparono correnti di influsso romantico, quali la pittura di storia e quella di paesaggio, mentre ebbero grande diffusione anche il disegno e la litografia, di derivazione goyesca. Solo marginale fu l'influsso dell'impressionismo (J. Sorolla, A. de Beruete ecc.).
Arte: il Novecento
Mentre la cultura in Spagna restava in larga misura ancorata a un sostanziale provincialismo, all'inizio del XX secolo alcuni pittori spagnoli, quali P. Picasso, J. Gris, J. Miró, S. Dalí, si posero fra i massimi protagonisti della grande rivoluzione artistica del periodo. Fino alla seconda guerra mondiale sporadici furono i tentativi di rinnovamento culturale: già aperta alle avanguardie europee appare l'opera pittorica di J. de Echevarria, B. Palencia, D. Velázquez Díaz, mentre, nel campo architettonico, fondamentale fu la conoscenza del Bauhaus grazie all'esposizione tenuta a Madrid nel 1931 da W. Gropius.
Soprattutto nel secondo dopoguerra però si constatò, da parte delle giovani generazioni, una vivace reazione antiaccademica insieme al tentativo di rendere partecipe la Spagna delle esperienze internazionali di maggior livello. Nel 1948 si verificarono eventi significativi e determinanti per lo sviluppo dell'arte spagnola d'avanguardia, quali la formazione del Gruppo delle Canarie, l'esposizione di arte astratta di Saragozza, la fondazione della rivista barcellonese Dau al Set, l'apertura della Scuola d'Altamira, di tipo antisurrealista. Da questi movimenti hanno preso il via vari gruppi indirizzati a forme espressive di origine astratta accomunati da una componente tipicamente spagnola di severa, forte drammaticità (E. Chillida, M. Millares, A. Saura, A. Tapies, F. Farreras ecc.). Per quanto riguarda l'architettura, nel primo Novecento originale fu l'esperienza di A. Gaudí a Barcellona, nella quale all'impiego di tecniche moderne si contrappone un ripiegarsi mistico e quasi visionario su esperienze culturali del passato. Nel 1929, in occasione dell'Esposizione Internazionale di Barcellona, sono stati costruiti alcuni edifici emblematici del Movimento Moderno, fra cui il più noto è il padiglione di L. Mies van der Rohe. Nel 1930 J. L. Sert ha fondato a Barcellona, insieme a S. Yllscas, il GATCPAC (Gruppo di Artisti e Tecnici Catalani per il Progresso dell'Architettura Contemporanea), tramutatosi poi in GATEPAC come sezione spagnola del CIRPAC (Comitato Internazionale per la Risoluzione dei Problemi dell'Architettura Contemporanea). Il gruppo ha organizzato manifestazioni, pubblicazioni sull'architettura razionalista e ha dato vita con Le Corbusier al piano Macia (1932-34) per il nuovo assetto urbanistico di Barcellona. La guerra civile ha poi bloccato le istanze moderniste a favore di una ripresa di modelli tradizionali con soluzioni spesso pittoresche (Esquivel, Siviglia 1948, A. de la Sota; Cáceres 1954-58, J. L. Fernández del Amo). Nel 1952 è nato il Gruppo R che ha ripreso i programmi del GATEPAC. Ricordiamo a questo proposito i lavori di J. M. Martorell, O. Bohigas e J. M. Sostres a Barcellona. A Madrid J. A. Corrales, R. Vázquez Molezún e M. Sierra hanno seguito l'esempio statunitense e il modello di pianificazione britannico. Negli ultimi anni del sec. XX l'architettura si è sviluppata essenzialmente a Barcellona e a Madrid. La scuola di Barcellona, aperta ad istanze progressiste, è legata alla borghesia illuminata ed emergente. Le Olimpiadi di Barcellona del 1992 hanno offerto alla città un'occasione unica per un riordino urbanistico nell'ambito metropolitano (Parc de la Vall d'Hebron, 1992; Paseo Marítimo de la Barceloneta, 1996, Auditorium, 1999, progettato da J. R. Moneo), da segnalare inoltre la realizzazione del MACBA (Museu d'Art Contemporani de Barcelona, 1990-1995) su progetto dell'architetto R. Meier, con un impianto spiccatamente razionalista e una struttura dall'aspetto brillante e luminoso ideale per ospitare la produzione artistica contemporanea della città, ormai di fama internazionale e le due torri dell'Hotel Arts (1992), simbolo della recente apertura di Barcellona al mare. A Madrid invece l'architettura è più tradizionalista, legata alla committenza pubblica (Stazione ferroviaria di Atocha, 1990, realizzata da Moneo). Ricordiamo anche il progetto Cartuja 93 a Siviglia (rivalutazione di aree periferiche al servizio della cultura e del tempo libero) e in Catalogna l'apporto e l'esempio di R. Bofill e dello Studio PER.
Musica
La prima testimonianza di una tradizione musicale specificamente spagnola è il canto cristiano liturgico alquanto impropriamente denominato mozarabico (sec. V-XI). In seguito va ricordato lo sviluppo di una polifonia spagnola (sec. X-XII), con le rilevanti composizioni giunteci nel Codex Calixtinus, e, in ambito monodico, la fioritura delle cantigas, una delle tradizioni più rilevanti nel quadro della monodia europea del sec. XIII. Dopo le testimonianze polifoniche dei sec. XIII-XIV, trasmesse dal Códice de Las Huelgas, non si conoscono composizioni spagnole della prima metà del sec. XV: nella seconda metà invece si pongono le premesse della grande fioritura della musica rinascimentale, con la produzione di pagine sacre, villancicos e romances dovuta a J. del Encina (1468-1529) e a numerosi altri compositori presenti nel celebre Cancionero de Palacio e in altri cancioneros. Le personalità dominanti del Cinquecento sono C. de Morales (ca. 1500-1553), T. L. de Victoria (ca. 1550-1611) e F. Guerrero (1528-1599), che vanno annoverati tra i protagonisti della musica europea di quel secolo. Grande rilievo assume anche la musica per organo, con A. de Cabezón (1510-1566) e la ricca fioritura di opere per vihuela, con L. de Milán (ca. 1500-dopo il 1561), L. de Narváez (ca. 1500-dopo il 1555), A. de Mudarra (ca. 1508-1580) e numerosi altri. Nel sec. XVII la vihuela decadde, mentre si affermò la chitarra, specialmente con il compositore G. Sanz (1640-1710); tra gli organisti emerse J. Bautista Cabanilles (1644-1712). Proseguì la tradizione dei villancicos e dei romances e nacque una forma di teatro con musica, la zarzuela (il nome deriva dal palazzo dove nel 1657 fu rappresentato El golfo de las sirenas di P. Calderón de la Barca), con J. Hidalgo (ca. 1610-1685) e S. Durón (1650/60-ca. 1720), mentre rimase esclusa l'opera italiana. Essa fu introdotta nel sec. XVIII per iniziativa della corte borbonica, ma incontrò resistenze; in ambiente popolare fu preferita la tonadilla, semplice e spesso di carattere satirico, coltivata da P. Esteve y Grimau (m. 1794), L. Misón (m. 1776), B. de Laserna (1751-1816). La figura emergente in questo secolo, che, come il precedente, viene considerato di decadenza per la musica spagnola, è quella di A. Soler (1729-1783); ma si deve ricordare la significativa influenza dei due musicisti italiani vissuti a lungo in Spagna , D. Scarlatti (nella prima metà del Settecento) e L. Boccherini (nella seconda metà). Il più noto compositore spagnolo attivo all'estero fu V. Martín y Soler (1754-1806). Grave si fece la decadenza della musica spagnola nella prima metà del sec. XIX, in cui predomina l'influsso dell'opera italiana, ravvisabile anche nel protagonista di uno dei momenti più felici nella storia della zarzuela, F. A. Barbieri (1823-1894), accanto a cui vanno ricordati F. Chueca (1846-1908), M. Fernández Caballero (1835-1906), P. Arrieta y Corera (1823-1894), T. Bretón y Hernández (1850-1923), R. Chapí y Lorente (1851-1909). Soprattutto negli ultimi due si fece viva l'aspirazione a un teatro musicale spagnolo di carattere nazionale: di tali istanze va considerato sostenitore soprattutto F. Pedrell (1841-1922), la cui opera di compositore, didatta e studioso (in particolare del Rinascimento e della musica popolare spagnola) esercitò una significativa influenza sui compositori spagnoli della generazione successiva che raggiunsero fama europea: I. Albéniz (1860-1909), E. Granados (1867-1916) e M. de Falla (1876-1946), il maggior musicista spagnolo del Novecento. Accanto a loro, ma su un livello nettamente inferiore, può essere ricordato J. Turina (1882-1949). L'influenza di De Falla si avverte chiaramente in E. Halffter (1905-1989), mentre tra i compositori spagnoli più attenti alle ricerche più avanzate del secondo dopoguerra vanno ricordati C. Halffter Escriche (n. 1930) e L. de Pablo (n. 1930). La tradizione della zarzuela ha trovato prosecutori in J. Serrano (1873-1941), J. Guerrero (1895-1951), F. Moreno Torroba (1891-1982), autore anche di fortunata musica per chitarra. Questo strumento ebbe costantemente cultori in Spagna : si ricordano in particolare F. Sor (1778-1839) e F. Tarrega (1825-1909). A parte vanno ricordati alcuni concertisti spagnoli di larga fama: il violinista P. de Sarasate (1844-1908), il pianista R. Viñes (1875-1943), il violoncellista P. Casals (1876-1973), il chitarrista A. Segovia (1894-1987). Grande rilievo ha avuto nella vita musicale spagnola e nella stessa musica colta europea, a partire dal sec. XIX, la tradizione popolare, soprattutto quella andalusa del cante hondo e del flamenco.
Teatro
Dopo la caduta dell'Impero romano, durante il quale anche in Spagna , come nelle altre province, erano in funzione numerosi circhi e teatri, la Chiesa impedì per molti secoli ogni forma di rappresentazione e sopravvissero soltanto riti e feste d'origine pagana che le autorità religiose cercavano a volte di proibire e a volte di incorporare nelle loro cerimonie. Poi nelle zone sfuggite alla dominazione dei Mori, si sviluppò, partendo come altrove dai tropi del rituale cristiano, una forma di dramma liturgico caratterizzato ben presto da complesse e sontuose strutture spettacolari (ne è ancor oggi testimonianza la rappresentazione che si svolge annualmente per l'Assunzione nella chiesa di Elche, su un testo del sec. XVI, ma con probabile riferimento a una tradizione ancor più antica). Che questa forma di teatro si sia ben presto secolarizzata è attestato dal codice di Alfonso X il Dotto (1221-84) che vietava a preti e laici la partecipazione a juegos de escarnio e autorizzava rappresentazioni per Natale, l'Epifania e Pasqua, ma solo sotto il diretto controllo delle autorità ecclesiastiche. Nella prima metà del secolo successivo l'istituzione della processione del Corpus Domini permise di affiancare agli intenti edificanti propri di questa festa elementi tratti da forme di spettacolo popolare, fiorite, in stato di semiclandestinità, in epoche precedenti (soprattutto per opera dei juglares, giullari). Alcuni di questi elementi, soprattutto le esibizioni pirotecniche e i finti combattimenti, entrarono ben presto nel cerimoniale di corte in occasione di feste nuziali o di visite di personaggi illustri, mentre i tornei cessavano di essere fatti d'arme per diventare avvenimenti spettacolari, spesso ispirati a famosi romanzi cavallereschi, e altre forme teatrali, come gli entremeses, servivano da svago ai potenti. Sorse così, verso la fine del Quattrocento, un teatro di corte, nel quale alle preoccupazioni religiose si mescolavano i nuovi ideali del Rinascimento, che ospitò drammi pastorali, mitologici e cavallereschi spesso di notevole valore letterario. A corte veniva occasionalmente accolta anche la compagnia dell'attore-autore Lope de Rueda, il primo capocomico professionista spagnolo, che recitava le sue commedie e i suoi pasos soprattutto nei villaggi e nelle piazze. Contemporaneamente (metà del sec. XVI) giunsero in Spagna le prime compagnie italiane dell'Arte (importante quella di Ganassa) che fornirono un modello di alta professionalità e un solido schema organizzativo ampiamente imitato. Fu così che si formò un vero e proprio teatro professionale (a opera di compagnie itineranti), che trovò le sue prime sedi prendendo in affitto semplici cortili (corrales) circondati da case, fin quando (a Madrid dal 1572) il monopolio delle rappresentazioni teatrali non fu affidato a organizzazioni benefiche (come la madrilena Cofradía de la Pasión) che resero permanenti due corrales de comedias. Essi consistevano in un palcoscenico (a due piani con sommari elementi scenografici e poche semplici macchine) proiettato verso il pubblico che prendeva posto nel patio (i cosiddetti mosqueteros, gli spettatori più umili ma anche i più rumorosi), su vari palchetti o (le donne) in un'apposita galleria. Le compagnie erano dirette da un autor de comedias, cioè da un impresario-capocomico che acquistava i copioni dagli scrittori, scritturava gli attori e stipulava i contratti con i gestori dei corrales (co fradías o municipalità). Fu questo il teatro spagnolo del secolo d'oro, frequentato da rappresentanti di tutte le classi sociali e destinato soprattutto alle città che assorbivano una quantità enorme di comedias, il che spiega la copiosissima produzione di Lope de Vega o di Calderón de la Barca. Accanto a questo teatro professionale, c'erano gli autos sacramentales che venivano rappresentati nelle piazze su apposite impalcature in occasione del Corpus Domini e c'era un fiorente teatro di corte (come all'interno del Buen Retiro) che ospitava spettacoli caratterizzati dall'impiego di macchine complicate e da vistose trovate scenografiche. Dal teatro di corte si sviluppò anche un genere particolare, la zarzuela, brevi opere d'argomento mitologico sfarzosamente allestite, il cui successo coincise (nella seconda metà del Seicento) con il rapido declino del teatro commerciale. Il Settecento vide il trionfo dell'opera italiana (a corte e altrove), nonché la graduale sostituzione di teatri permanenti agli antichi corrales. Si rappresentavano commedie neoclassiche imitate dal francese, rifacimenti di testi del secolo precedente, zarzuelas, melólogos (monologhi o dialoghi con accompagnamento musicale), escenas mudas (pantomime pure con musica) e sainetes. L'Ottocento fu, come altrove, il secolo del teatro borghese nelle sue varianti romantica e realistica, e fu solo dopo il 1890 che si verificarono alcune importanti novità: il clamoroso successo della zarzuela intitolata La verbena de la paloma (1894), di R. de la Vega; il trionfo del género chico e l'apertura, a Barcellona, del Teatre Intim di A. Gual, primo esempio in Spagna di teatro sperimentale di tendenza simbolistica. Con il nuovo secolo la reazione antirealistica culminò in un rinnovato interesse per il teatro dei fantocci e per il teatro d'ombre (con copioni firmati dai maggiori scrittori dell'epoca) e nell'attività svolta da M. Sierra come direttore, dal 1917 al 1925, del Teatro Eslava di Madrid. Altri importanti uomini di teatro furono negli anni precedenti la guerra civile A. Cipriano Rivas Cherif, fondatore nel 1928 della compagnia El Caracol e successivamente animatore, con M. Xirgu, del Teatro Escuela de Arte, e i fratelli Baroja che allestirono al Mirlo Blanco varie commedie di R. del Valle-Inclán. Poi nel 1931, dopo l'avvento della Repubblica, sorsero alcuni teatri proletari e due istituzioni sovvenzionate, la Barraca di G. Lorca, che presentava testi classici nei villaggi, e il Teatro del Pueblo di A. Casona, cui si aggiunse, negli anni della guerra civile, la Nueva Escena di R. Alberti, il più importante dei gruppi politici di parte repubblicana. La vittoria di Franco segnò, anche in teatro, la restaurazione di un'immagine della Spagna non più rispondente alla realtà. Si rappresentarono soprattutto commedie d'evasione (spesso importate dall'estero) o classici edulcorati, nonché rivistine, zarzuelas e altre forme di teatro scacciapensieri. La prima reazione di rilievo fu nel 1945 la creazione, a opera di A. Sastre e A. Paso, di Arte Nuevo, un gruppo dichiaratamente sperimentale. In seguito Paso divenne un autore meramente commerciale, mentre Sastre continuò, tra mille difficoltà, a propugnare un teatro socialmente impegnato con le sue commedie e con l'attività svolta in organismi come il Teatro de Agitación Social e il Grupo de teatro realista. Importante è stata anche negli anni Sessanta la riscoperta di autori come Lorca, Unamuno, Valle-Inclán e Casona, nonché il lavoro compiuto da compagnie professionali, prima fra tutte quella di N. Espert (che ha contribuito al rinnovamento del teatro in lingua catalana) e da vari gruppi sperimentali. Questi ultimi, operanti spesso nella clandestinità durante il franchismo, hanno avuto modo, dopo il 1975, di rivelarsi più apertamente. Il più importante è l'Els Joglars di Barcellona, diretto da A. Boadella, impegnato a praticare un teatro di protesta, di resistenza e di agitazione sociale (molti suoi membri, a metà degli anni Settanta, sono stati anche arrestati e processati). Altre formazioni di rilievo sono l'Els Comediants, nato nel 1972 sotto la guida di J. Font, che tenta un percorso di immediata e diretta comunicazione con il pubblico (si ricordino le performances del marzo 1981, attuate “invadendo” la città di Venezia in occasione dell'apertura del carnevale, e che sono state poi replicate con successo in giro per il mondo) e La Fura dels Baus, che nasce alla fine degli anni Settanta ispirandosi a manifestazioni popolari del folklore mediterraneo. Da segnalare anche l'attività di altri gruppi come il Tei, il Teatro Tabano di Madrid, la Cuadra di Siviglia e il Teatro Estudio Lebrijano.
Danza
Il patrimonio coreutico iberico è fra i più ricchi al mondo e la nazione spagnola può contare su almeno due straordinari filoni di tradizione autoctona, quello di ascendenza flamenco-andalusa e quello accademico-spagnolo della escuela bolera. Accanto a questi due filoni maggiori sopravvivono una quantità di tradizioni coreutiche regionali e, in tempi moderni, si sono affermate nuove forme di espressione coreutica che attingono alla tradizione ballettistica e a quella del modernismo e dello sperimentalismo internazionale. Le origini del flamenco – tuttora spesso erroneamente considerato un'arte esclusivamente gitana – si perdono nella notte dei tempi. Le prime tracce sono di epoca preiberica e risalgono allo sviluppo di una fiorente civiltà insediatasi nel Sud della Spagna, che aveva per capitale Tartesso. In epoca romana Marziale e Giovenale narrano di danze insolitamente ritmiche eseguite dalle fanciulle di quella regione con l'accompagnamento dei crotali. Con l'arrivo degli Arabi in Andalusia (711 d. C.) l'influenza orientale si aggiunse all'eredità della musica liturgica greco-bizantina e giudaica e a quella ritmico-musicale di ascendenza ibero-celtica romanizzata, confluendo in una forma unica di cultura che, dopo la Reconquista si irradiò in tutte le regioni della Spagna , perdendo in questo passaggio alcuni dei suoi tratti peculiari. Nel sec. XX, con l'apertura dei primi Cafés Cantantes, la musica e la danza andaluse, che avevano mantenuto intatti caratteri antichissimi, subirono una divaricazione. Se da un lato continuò a fiorire, in circoli ristretti, il flamenco andaluso – frutto di intricati e geniali percorsi di improvvisazione individuale ottenuta per accumulazione geometrica secondo un insieme di regole di proibitiva complessità, protette da una sorta di intangibilità iniziatica – dall'altro si verificò una parallela evoluzione della tradizione flamenca secondo forme più lineari e stilizzate, trascrivibili – nel caso della musica – e trasmissibili – per la danza. Quanto alla escuela bolera, che ebbe la sua massima fioritura nei sec. XVIII e XIX, ma la cui tradizione è giunta fino a noi grazie all'attività di celebri famiglie di artisti, fra i quali i Pericet, essa può essere sinteticamente definita come una variante spagnola dell'accademismo di scuola franco-italiana, con alcune proprie regole, eccentriche rispetto al corpus principale. In epoca moderna il patrimonio iberico e la moderna tradizione del balletto risalente a S. P. Djagilev (che soggiornò in Spagna con i suoi Ballets Russes negli anni del primo conflitto mondiale) si riunirono in una singolare e geniale figura di interprete-creatrice, La Argentina (nome d'arte di Antonia Mercé), cui si è soliti attribuire il merito della moderna rinascita della tradizione coreutica teatrale spagnola. Intorno a lei e dopo di lei sono fiorite numerose altre notevoli figure di interpreti-creatori (La Argentinita, Antonio, V. Escudero, Mariemma, P. López, J. Greco, A. Gades, M. Maya) che hanno vivificato la tradizione spagnola, rendendola nuovamente celebre in tutto il mondo. A partire dal 1979, per iniziativa del Ministero della cultura, la Spagna possiede anche un Balletto Nazionale Classico orientato alla formazione di un repertorio ispirato alla tradizione ballettistica internazionale. Accanto a esso il Ballet Nacional de Espana, nato nel 1978, si prefigge di conservare e arricchire, secondo un'originale disciplina di scuola, il patrimonio folclorico nazionale. Nell'ultimo quindicennio sono poi fiorite in Spagna numerose altre espressioni coreutiche variamente ispirate a esperienze stilistiche e coreografiche di ascendenza europea e americana. Personalità come quelle di V. Ullate – già ballerino nella compagnia di Antonio (Ruiz Soler) e nel Ballet du XXe Siècle di M. Béjart –, V. Saez, e gruppi come Mudances, Lanònima Imperial, Gelabert-Azzopardi Compania de danza, arricchiscono il panorama spagnolo contribuendo a farne uno dei terreni di più vivace attività coreutica nel mondo.
Cinema: dalle origini agli anni Settanta
Dal 1896 a Madrid e a Barcellona, il cinema entrò in Spagna negli ultimi anni del secolo sotto il duplice stendardo dell'esercito e della Chiesa, ampiamente sbandierato nei primi cinegiornali (anche se, nel 1898, il reportage anonimo La llegada de las tropas de Cuba, L'arrivo delle truppe da Cuba, recava inconsciamente una sinistra eloquenza). Tra i pionieri vanno citati S. de Chomón, maestro di trucchi che fece poi carriera all'estero, F. Gelabert e R. de Baños che negli anni Dieci realizzarono i primi film di successo e di qualche prestigio. Le società non mancavano, specie a Barcellona, ma la produzione imitava il cinema straniero o blandiva la piccola borghesia locale con spagnolismi insulsi e volgari. Negli anni Venti, sotto la dittatura “protezionistica” di P. de Rivera, si affermarono quali registi nazionali B. Perojo, J. Buchs, F. Delgado e F. Rey (1896-1961) che nel 1929 firmò con La aldea maldita (Il villaggio maledetto), fortemente influenzato dal realismo russo, il migliore dei film spagnoli muti. Intanto, nel 1928, era nato a Madrid il primo cineclub (fondato da L. Buñuel) e nei primi anni Trenta nacque la rivista Nuestro Cinema grazie a J. Piqueras (1904-1936), fucilato nella guerra civile. L'introduzione del sonoro coincise con l'avvento della Repubblica. Buñuel girò nel 1932 Las Hurdes (tit. italiano Terra senza pane), documentario di grande efficacia su una delle regioni più povere della Spagna, riuscendo in seguito a imporsi al grande pubblico con film che univano elementi onirici, critica sociale e umorismo beffardo da Un Chien andalou, 1928 (Un cane andaluso) e L'Âge d'or, 1930 (L'età d'oro), a Los Olivados, 1950 (I figli della violenza), a Le charme discret de la bourgeoisie, 1950 (Il fascino discreto della borghesia) e Viridiana (1960). Negli anni Trenta molti registi si dedicarono a un'attività alquanto impersonale (E. F. Ardavin, E. Neville, J. L. Saenz de Heredia e altri). Nel 1935 si produssero una quarantina di film, tra i quali solo un paio da ricordare: Nobleza baturra (Nobiltà contadina) di Rey e La verbena de la paloma (La festa della colomba) di Perojo. Fiorì però il documentarismo di C. Velo (poi esule in Messico come Buñuel). Dopo il 1939 e la caduta della Repubblica, la produzione si stabilizzò sui 30-50 film annui, quasi raddoppiati con gli anni Sessanta. Ma, come disse nel 1955 J. A. Bardem alle Conversaciones cinematográficas di Salamanca, si trattava pur sempre di un cinema “politicamente inefficiente, socialmente falso, intellettualmente infimo, esteticamente nullo e industrialmente rachitico”, anche se, fin dai primi anni Cinquanta, proprio Bardem con L. G. Berlanga aveva segnato la nascita di un cinema nazionale fatto “con amore, sincerità e onore”. Dominato da queste due personalità, e non certo da L. Vajda che nel 1954 ottenne successo anche all'estero con Marcelino pan y vino, il decennio subì l'influsso positivo del neorealismo italiano e all'inizio del decennio successivo, mentre il reduce Buñuel trionfava a Cannes con Viridiana (1961), subito sconfessato dal regime, l'italiano M. Ferreri con El cochecito (La carrozzella) mise in moto l'umorismo nero di R. Azcona, suo sceneggiatore. Negli anni Sessanta una certa liberalizzazione controllata, un certo protezionismo per i film di qualità e i cínemas d'arte y ensayo, lo sviluppo delle riviste specializzate, la presenza di un produttore spregiudicato come E. Querejeta fecero parlare di nueva ola, di nuevo cine. Guardati a vista, Bardem e Berlanga diedero altre felici prove (il primo Nunca pasa nada (Non succede mai niente) nel 1963, il secondo La ballata del boia nel 1964), mentre emergevano nuovi talenti: anzitutto C. Saura (Los golfos, 1960; La caza, 1966, La caccia), poi M. Picazo (La tía Tula, da Unamuno, 1964), J. Camíno (Los felices '60, 1963), J. Grau, B. M. Patino, F. Regueiro, M. Summers, A. Fons, A. Eceiza, J. Aguirre; senza contare la cosiddetta scuola di Barcellona, il cui film riassuntivo fu Fata morgana (1965) di V. Aranda, che tentò nello stesso periodo di operare a livello stilistico una rottura, anzi una completa distruzione della realtà non più tollerata. Il passaggio dall'uno all'altro decennio, caratterizzato da una recrudescenza della censura, può essere illustrato da due film ermetici e durissimi del giovane A. Ungría: El hombre oculto (fine anni Sessanta) e Tirarse al monte (inizio anni Settanta). Notevole, in questa congiuntura, anche il rinnovato impegno ideologico di Saura, e da segnalare il bel film di V. Erice El espíritu de la colmena (Lo spirito dell'alveare), premiato al Festival di San Sebastián del 1973.
Cinema: il cinema postfranchista
Durante la lunga agonia del generalissimo Franco entrarono in lavorazione tre film, che nel 1976 annunciavano una Spagna diversa: Cría cuervos... di Saura, La famiglia di Pascual Duarte del giovane R. Franco (entrambi premiati a Cannes), Las largas vacaciones del '36 (Le lunghe vacanze del '36) di Camíno, che direttamente si ricollega ai momenti tragici della guerra civile. Il dopo Franco portò una liberalizzazione sia politica che nei costumi (l'orgia di nudo sugli schermi), senza però che si perdesse subito l'uso della metafora, specie nei film di Saura, come anche nel Ponte di Bardem. L'assuefazione alla quarantennale notte del franchismo impediva a molti di rompere col passato. Passato che in modo limpido e agghiacciante riemergeva dal trittico documentario di B. M. Patino, Canciones para después de una guerra (Canzoni per un dopoguerra) (1971, a lungo bloccato dalla censura), Querisídimos verdugos (1976, tit. italiano Carissimi carnefici) e Caudillo (1977). In Raza, el espíritu de Franco (1977), G. de Herralde “rileggeva” criticamente il vecchio Raza (1941) di J. L. Saenz de Heredía su soggetto del dittatore. Venivano alla luce i riti del fascismo in Camada negra (1976) di M. Gutiérrez Aragon, e soprattutto le “diversità” che il fascismo non tollerava: il legame sesso-morte in Bilbao (1978) di J. Bigas Luna, l'omosessualità in A un dios desconocido (1977; A un dio sconosciuto) di J. Chávarri e in Ocaña un retrato intermitente (1978; Ocaña un ritratto intermittente) di Ventura Pons. Con La ciutat cremada (1976, tit. italiano La città bruciata) di A. Ribas, nasceva il cinema interamente parlato in catalano. In Alicia en la España de las maravillas (1977; Alice nella Spagna delle meraviglie) di J. Feliu si ironizzava sulla democrazia che, subentrata a una dittatura dal volto macabro, assumeva parvenze giovani e vecchie, sempre denudate, inafferrabili, magari multinazionali. Un film sulla Guardia Civil, El crimen de Cuenca (1980) di P. Miró, venne anche proibito. Cosicché, alla fine degli anni Settanta, il cinema spagnolo non risultava all'altezza delle generali speranze, pur cogliendo importanti successi all'inizio degli anni Ottanta: l'Orso d'oro di Berlino, sia pure ex-aequo, e sia pure col non eccelso La camada di M. Camus; e lo speciale premio di Cannes al film-balletto di Saura, Carmen. Oltre a questi cineasti vanno ricordati J. L. Garci che con Volver a empezar (1982; Ricominciare) porta, per la prima volta, un film spagnolo a vincere l'Oscar. Paradossalmente nello stesso periodo, mentre il cinema iberico sopravviveva grazie ai contributi governativi, esplodeva internazionalmente il "fenomeno" Almodóvar, tra i più effervescenti portabandiera della nuova Spagna: Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón (1980; Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio); La ley del deseo (1986; La legge del desiderio); Laberinto de pasiones (1982; Labirinto di passioni); Qué he hecho yo para merecer esto? (1985; Che cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?); Matador, 1987; Mujeres al borde de un ataque de nervios (1988; Donne sull’orlo di una crisi di nervi); Átame! (1990; Legami!); Tacones lejanos (1991; Tacchi a spillo); Kika, 1993; La flor de mi secreto (1995; Il fiore del mio segreto); Carne trémula, 1997; Todo sobre mi madre (1999; Tutto su mia madre); Hable con ella (2002; Parla con lei). Sulla scia del suo straordinario successo, molti registi sono riusciti a superare i confini nazionali, facendosi notare per una serie di pellicole dagli argomenti più vari (prevalente la tematica erotica, trattata con disinvolto spirito scandalistico, in funzione dissacratoria e anticonformista). Tra i nomi più interessanti troviamo M. Armendaritz (La 23 hora, 1986), F. Trueba (Belle époque, 1992, premio Oscar per il miglior film straniero), A. Albacete (Mas que amor, frenesi, 1996), M. Lombardero ( El brazos de la mujer madura, 1997), J. L. Guerin (Tren de sombras, 1997), R. Franco ( La buena estrella, 1997), A. Amenábar (Tesis, 1996; Abre los ojos, 1997) e i già citati Gutierrez Aragon (La mitad del cielo, 1986) e Aranda (Amantes, 1991; La pasión turca, 1997). La diffusione all'estero di numerose produzioni iberiche ha inoltre permesso ad alcuni attori spagnoli come C. Maura, V. Abril e A. Banderas, di acquisire una notevole fama internazionale. Se in patria i film dell’anziano Berlanga continuano a raccogliere consensi (La vaquilla, 1985; Paris-Timbuktu, 1999), anche gli autori rappresentativi della cinematografia degli ultimi decenni sono tornati alla ribalta:.tra questi Saura (Ay Carmela!, 1991; Dispara!, 1993; Flamenco, 1995; Taxi, 1996 e Tango, 1998; Goya, 1999; Buñuel y la mesa del rey Salomón, 2001) e Bigas Luna: Las edades de Lulú (1990; Le età di Lulù); Jamón, jamón (1992; Prosciutto prosciutto); La teta y la luna, 1994; Bámbola, 1996; La camarera del Titanic (1998; L'immagine del desiderio); Son de mar (2001; Il suono del mare). Nel dicembre 1999, nell’isola di Lanzarote, lo Spanish Film Screening for Europe ha rivelato il talento di nuovi registi, tra i quali ricordiamo Carlos Saura jr con Tu que harias por amor.
Folclore
Al di sotto dell'unità politica la diversità delle “Spagne ” (il plurale popolare vive sempre, a dispetto del singolare ufficiale) è tuttora perfettamente percettibile nella grande varietà dei fenomeni folcloristici, vale a dire antropolinguistici, culturali, socioeconomici e politici (spinte autonomistiche regionali). La stessa Spagna romana, nella sua distribuzione “provinciale”, consacrò, su basi geografiche, l'esistenza di cinque zone o aree fondamentali: meridionale, orientale, settentrionale, occidentale e centrale. L'area meridionale (oggi, essenzialmente, l'Andalusia con “appendici” nel sud d'Estremadura e ovest della Murcia), anticamente popolata da Turdetani, Turduli e Bastuli, accolse più o meno profondi e duraturi influssi di Fenici, Cartaginesi, Romani, Germani (Vandali e Visigoti), Bizantini, Ebrei e soprattutto Arabi (più precisamente, dei Mori marocchini). Da qui la persistenza di antiche forme di sfruttamento dei fertili terreni (latifondo; colture della vite e dell'olivo; allevamenti bovini ed equini), di tipiche forme di vita e stratificazioni sociali (abitazioni in grotte e capanne, ma anche in cortijos, grandi fattorie isolate, ville signorili di tipo pompeiano – col classico patio – e prosperi nuclei urbani, come Cordova, Siviglia, Granada, Jaén, Cáceres ecc.; ricchi e colti latifondisti e masse di servi e salariati agricoli, con nuclei di emarginati e fuorilegge: schiavi, bandoleros e, a partire dal sec. XV, moreschi e gitani) e conseguenti manifestazioni di religiosità popolare e rurale, superstizioni, culti vistosi ed emblematici (confraternite e pasos della Settimana Santa , santuari e pellegrinaggi innumerevoli, corride, alle cui origini è forse il culto cretese del toro ecc.), nonché peculiari caratterizzazioni linguistiche (ceceo e seseo, lessico ricco di arabismi, barocchismi metaforici e iperbolici) e vasto repertorio di creazioni artistiche, culminanti nelle canzoni e nelle danze dello straordinario cante hondo o flamenco. La zona orientale o mediterranea, più o meno coincidente oggi con l'area linguistica catalana, vide fiorire, accanto alla primitiva cultura agricola (non però di latifondo) ibero-celtica, ricchi empori commerciali greci, ereditati e sviluppati poi da Romani e Mori (rimasti in gran numero, questi ultimi, anche dopo l'espulsione del 1609). Ma costanti furono anche i contatti delle province settentrionali (Catalogna propriamente detta) con la Francia occitanica e l'Italia, a partire dall'epoca di Carlo Magno. Da cui, forse, il tipico senso pratico (seny) e l'attivismo dei catalanofoni, che hanno fatto di Barcellona la capitale economica del Paese. Il loro modernismo non è, tuttavia, in contrasto con un profondo attaccamento ai costumi antichi, dall'uso tenace della lingua ai culti religiosi (la Vergine Moreneta di Montserrat, san Giorgio e altri patroni) e dalle danze – fra cui primeggia la classica sardana, semplice e solenne come una danza greca – alle feste popolari, come le “battaglie di Mori e cristiani”, le fallas di san Giuseppe a Valencia, la rappresentazione dell'Assunta a Elche, le sfilate di giganti, “testoni” e tarasche ecc. Antiche forme sopravvivono anche nelle abitazioni (dal mas o masía catalano alla barraca valenciana), nei cibi (la paella, la butifarra), in qualche indumento (la “frigia” barretina) e in un ricco canzoniere popolare. Nella zona settentrionale hanno spicco i Paesi Baschi (a cui appartiene anche la castiglianizzata Navarra) e le Asturie, che si vantano di essere state il primo e più antico regno cristiano medievale. A parte il mistero delle loro origini e della lingua, è certo che i Baschi, cristianizzati solo a partire dal sec. IX e vissuti a lungo isolati sulle montagne, conservano una solida struttura familiare e rurale (con centro nel caserío o microvillaggio), resti di costumi giuridici matriarcali e di culti totemici e lunari, superstizioni radicate (stregonerie), danze e mascherate di evidenti reminiscenze rituali agricole, un notevole repertorio di canti e racconti popolari e riti spettacolari, quali la famosa pelota, l'airikote, la lotta dei montoni, le gare d'ascia ecc. Gli abitanti della costa sono, da tempi immemorabili, pescatori e marinai provetti. Assai ricca è anche la cultura popolare asturiana, pure di origine pastorale e agricola, con un vasto patrimonio di romances, danze quali la danza prima e il corricorri e strumenti come la gaita de pellejo. Nella zona occidentale risalta la Galizia, regione isolata e aspra (vi domina il minifondo e le risorse sono molto limitate), che in tempi remoti fu però il centro di un forte regno barbarico (quello svevo) e nel Medioevo ebbe un momento di apertura e di fama europea grazie al celebre santuario di Santiago de Compostela, per cui la parlata romanza locale, successivamente estesa al Portogallo, assurse alla dignità di lingua letteraria. I Galiziani conservano costumi e istituti antichi, dalla proprietà comunale dei pascoli all'horreo isolato su piloni, dalla capanna rotonda (pallaza) alla cappa impermeabile vegetale (coroza). La loro immaginazione celtica popola la terra di fantasmi di trapassati (Santa Compaña) e di stregonerie; ma le loro feste (fra cui i maggi), con musiche e danze (muiñeiras) accompagnate dalla zampogna (gaita) e dal tamburo, sanno anche essere allegre, sebbene mai disgiunte da un fondo di malinconia. La zona centrale, infine, comprende le due Castiglie e l'Aragona, i pilastri dell'unità politica spagnola. Discendenti di quei Cantabri e Celtiberi che tanto resistettero ai Romani (l'attestano ancora le epiche rovine di Numanzia), i castigliani, individualisti come il loro eroe tipico, il Cid Campeador, calarono dalle montagne (a N di Burgos) fino a Gibilterra, in lunghi secoli di lotta contro i Mori, popolando la Spagna di castelli e di hidalgos. Oggi la Vecchia Castiglia (Soria, Ávila, Salamanca) è meno popolata e più povera delle fertili regioni centrali (Nuova Castiglia, dove rimasero molti discendenti dei Mori vinti) e meridionale, ma conserva zone di un affascinante arcaismo, come le Hurdes (Salamanca), l'alta Estremadura e la Maragatería (nell'antico regno di León), e costumi agricoli e pastorali (transumanza) molto radicati, con danze, feste (San Giovanni) e canzoni tipiche. Interessante appendice castigliana è la Montagna (provincia di Santander), vero cuneo inserito fra Baschi e Asturiani, sulla costa cantabrica. Nell'Aragona, infine, sono ben distinguibili due zone: le alte valli pirenaiche dove sopravvivono arcaici costumi pastorali, e la fertile valle dell'Ebro, secolare via di comunicazione e di scambi culturali, ben nota a Romani e Arabi. Quivi sorge l'antica capitale, Saragozza, col suo famoso santuario della Madonna del Pilar, e capoluogo oggi di una prospera regione agricola e industriale. Nel composito folclore aragonese spiccano la celebre jota, vivacissima danza di probabile origine moresca, il dance, colorito spettacolo coreografico, e i maggi. Appartengono, da ultimo, alla Spagna due gruppi insulari di alto interesse folclorico: le mediterranee Baleari, dove l'arcaica Ibiza fa spicco sulle catalane Maiorca e Minorca, e le atlantiche Canarie, dove prima della conquista castigliana (fine sec. XV) fiorì la misteriosa cultura dei Guanches e dove sopravvivono costumi antichissimi, come le danze tajaraste e sirinoque e il linguaggio “fischiato” della Gomera, unico nel mondo. In ognuna di queste aree è fiorente l'artigianato e basterà ricordare gli smalti, le perle artificiali (le cosiddette “perle di Maiorca”), le spade e i coltelli di Toledo con decorazioni in agemina, i broccati di Segovia, le sete di Granada, i tappeti di Alcatraz e dell'Alpujarras, gli strumenti musicali, specie a corda, le nacchere, i cembali, i cuoi sbalzati di Cordova, le mantiglie e gli splendidi ventagli.
Gastronomia
La cucina spagnola non è raffinata, ma sostanziosa e molto saporita, dominata dall'olio aspro, dall'aglio, dalla cipolla e dalle spezie; mescola i sapori, le carni con i pesci, i frutti di mare, le verdure, come le cucine orientali (tipica in questo senso la paella valenciana). Eccellente il prosciutto della Sierra (jamón serrano) e il chorizo, saporitissima salsiccia. Cibo tipico è il cocido, simile al cuscus arabo. Se ne hanno diverse varianti, secondo le regioni, ma in genere si tratta di una specie di minestra con verdure, carne di bue o di montone o di pollo. Altri piatti tipici spagnoli sono la zuppa d'aglio, il gazpacho (zuppa andalusa), specie di minestra fredda a base di pomodori, peperoni, cetrioli, cipolle sminuzzate, aglio, pane, olio e aceto. La merluza (merluzzo) è cucinata in un'infinità di modi. La bevanda più diffusa è il vino. Migliori tra tutti sono il rioja, il jerez, il málaga, il manzanares e l'alicante.

Clemènte V

(al secolo Bertrando di Goth). Papa (Villandraut ?-Roquemaure 1314). Vescovo di Cominges (1295) e arcivescovo di Bordeaux (1299), fu eletto papa (1305) per volere di Filippo IV il Bello. Rimase in Francia dando inizio alla “cattività avignonese”. Su ordine di Filippo aprì un processo (1310) alla memoria di Bonifacio VIII accusato di eresia e immoralità; nel Concilio di Vienne (1311-12) soppresse l'ordine dei templari dei quali il re bramava le proprietà; favorì l'espansione della potenza angioina nominando Roberto d'Angiò capo del partito guelfo in Italia; ordinò la raccolta delle sue decretali (clementino, Costituzioni clementine); diede impulso all'evangelizzazione dei pagani d'Oriente (nominò un arcivescovo a Pechino); favorì gli studi di medicina e lingue orientali istituendo cattedre universitarie di ebraico, siriaco e arabo; fondò le università di Orléans e di Perugia e ricostruì la basilica lateranense.

Teutònico, órdine-

ordine monastico-militare originato da un ospizio tedesco. Dipendente dal papa a Gerusalemme (1143) e costituito in ordine, fu dedicato a Maria Vergine, nel 1197, ed ebbe sede ad Acri. Dotato di ampi privilegi papali, venuta meno la sua funzione in Terrasanta, fu chiamato dal duca Corrado di Masovia sulle rive del Baltico per una “crociata” tedesca contro gli Slavi di Prussia, Lituania, Livonia ed Estonia ancora pagani. Fusisi con i locali Cavalieri Portaspada, i teutonici condussero la “crociata” con inaudita ferocia e, salvaguardati da privilegi papali e imperiali (Federico II), conquistarono e colonizzarono prima la Prussia, poi i rimanenti Paesi baltici. Si crearono così un vero e proprio Stato nell'Impero (capitale Marienburg, che toccò l'apogeo nel sec. XIV); tra le numerose città da loro fondate, Torun, Königsberg e l'importantissimo porto commerciale di Danzica. L'emergere del regno di Polonia e la sua unione con la Lituania (1385) segnarono il declino dell'ordine. Sconfitto da Polacchi e Lituani a Tannenberg (1410) e minato poi da insurrezioni interne, l'ordine si ridusse al dominio della Prussia Orientale (1466), in rapporto di vassallaggio col re di Polonia. Nuova capitale divenne Königsberg. Nel 1525 il Gran Maestro Alberto di Brandeburgo, passato al luteranesimo, secolarizzò il suo Stato prussiano, che diventò un feudo degli Hohenzollern sotto la corona polacca. Ma l'ordine, rimasto cattolico, sopravvisse in Germania fino al 1809 quando fu soppresso da Napoleone I, e risorse trent'anni dopo a Vienna sotto gli auspici degli Asburgo con le funzioni originarie di assistenza e di culto, e in questa forma sopravvive tuttora seppure con un numero esiguo di membri distribuiti tra Austria, Germania, Italia. La sede è a Vienna. Insegna dell'ordine è una croce nera, contornata di un alone chiaro, con il braccio inferiore più lungo degli altri.

Venèzia (città)

Geografia
Città del Veneto, capoluogo regionale e dell'omonima provincia, sede arcivescovile (patriarcato), universitaria e grande centro di storia d'arte e di cultura con imponenti attrezzature industriali e un porto tra i maggiori del Mediterraneo orientale; comune di 457,47 km2 (il più esteso del Veneto) con 291.531 abitanti (stima del 2000). È situata a 1 m s.m. nel cuore della Laguna Veneta su un complesso irregolare di isole e isolette, separate tra loro da una fitta rete di canali, in parte ora colmati o tenuti aperti artificialmente, a soli 2 km dal mare aperto (golfo di Venezia) e a 4 dalla terraferma veneta, con la quale è collegata mediante due lunghi viadotti affiancati, uno ferroviario (1846) e uno stradale (1933). Il comune comprende anche le isole o i gruppi insulari di Murano, Burano, Mazzorbo, Torcello, Sant'Erasmo, Vignole, La Certosa, San Servolo, San Clemente, Sacca-Sessola e altre, nella laguna, e le lunghe e strette isole del Litorale di Lido e del Litorale di Pellestrina, che separano la laguna dal mare aperto e ospitano i centri balneari e residenziali di Lido, Malamocco, Alberoni, San Pietro in Volta e Pellestrina; la città si stende ampiamente anche sulla terraferma, dove sorgono i grossi agglomerati urbani di Mestre e di Marghera, altri centri minori e i vasti impianti portuali e industriali di Porto Marghera. ? Il nucleo storico tradizionale di VeneziaSan Giorgio Maggiore, sul bacino di San Marco, e della Giudecca , di fronte alle Fondamenta delle Zattere, è costituito ora da 18 isolette (in passato, prima del colmamento di vari canali, erano molto più numerose), separate da ben 160 canali, superabili attraverso ca. 400 ponti, anticamente di legno, ma successivamente (dal 1486) sostituiti da quelli attuali di pietra, quasi sempre ad arco. Le arterie del traffico sono rappresentate dai canali, mentre i vicoli, chiamati normalmente “calli”, in genere stretti e tortuosi, collegano i “campi” e i “campielli”, che si aprono spesso nella parte centrale delle isole, con le “fondamenta" o direttamente con i canali stessi, dando luogo a un tessuto urbano originale e particolarissimo, straordinariamente ricco di effetti scenografici e di scorci pittoreschi.
Urbanistica
La maggiore arteria della città è il celebre Canal Grande, largo da 30 a 70 m, che sviluppandosi per ca. 3800 m con la forma di una gigantesca S rovesciata mette in comunicazione la stazione ferroviaria di Santa Lucia e il piazzale Roma (cioè le aree insulari raggiunte dai traffici di terraferma) con il bacino di San Marco, su cui si affacciano alcune fra le principali strutture dello splendido nucleo monumentale e nel quale confluiscono da SE il canale di San Marco e da W il canale della Giudecca. Tradizionalmente la città è divisa nei sestieri di Cannaregio, San Marco e Castello, a NE del Canal Grande; Santa Croce, San Polo e Dorsoduro, a SW. Il traffico, che si svolge in larga misura per via d'acqua con gondole, motoscafi e vaporetti per le persone, barche e barconi per le merci, costituisce una delle caratteristiche più tipiche di un tessuto urbano tanto originale. Nel settore orientale della città, in direzione dell'antico Arsenale, si aprono i Giardini Pubblici, voluti da Napoleone Bonaparte nel 1807, una parte dei quali ospita ora i padiglioni dell'Esposizione Internazionale di Arte Moderna. Subito a E sorge l'isola di Sant'Elena, sede di impianti sportivi. Di recente creazione o sviluppo sono i due grandi nuclei urbani di Marghera e di Mestre e il centro balneare, e in seguito specialmente residenziale, del Lido. L'affermazione di questi centri satelliti, caratterizzati da una netta e marcata differenziazione urbanistica ed economica, è stata oltremodo favorita da un intenso flusso migratorio dal centro storico di svariate migliaia di abitanti, che hanno preferito abbandonare le vecchie dimore malsane del centro storico e trasferirsi in quartieri più moderni e in abitazioni maggiormente rispondenti alle esigenze della vita moderna. Il progressivo svuotamento demografico del nucleo storico, dovuto a ragioni sociali più che economiche – come dimostra il flusso giornaliero di alcune decine di migliaia di addetti all'industria e al commercio, che ogni giorno dalla terraferma si recano a lavorare nella città insulare – ha determinato un progressivo invecchiamento della popolazione residente, il drammatico inarrestabile sgretolamento del patrimonio edilizio, la stasi pressoché assoluta dell'attività edilizia e l'incremento di attività speculative legate al turismo e all'edilizia di lusso. Numerosi piani e progetti sono stati avanzati per impedire o frenare l'inaridimento economico e sociale del nucleo storico, che si va sempre più trasformando in città-museo; ma di concreto ben poco è stato fatto sia per i vari ostacoli d'ordine politico e finanziario, sia principalmente per la mancanza di proposte concrete e valide, atte a fornire una soluzione accettabile a una serie di problemi così complessi. La città lagunare, dopo essere stata per secoli il più grande e attivo emporio commerciale di tutto il Mediterraneo per i suoi vivaci scambi con il Levante musulmano e con i ricchi mercati dell'Europa centrale, cominciò a decadere fin dal sec. XVI in conseguenza dello spostamento verso l'Atlantico delle maggiori correnti di traffico mercantile. Un risveglio delle attività economiche ebbe luogo verso la metà del sec. XIX, grazie alla costruzione del ponte ferroviario e l'allestimento di banchine e magazzini portuali all'estremità occidentale dell'abitato insulare. In alcuni decenni il porto ebbe un'espansione apprezzabile come sbocco dei prodotti della retrostante terraferma veneta e come punto di sbarco delle merci importate dall'estero; si affermava intanto rapidamente il turismo – per lo più ancora soltanto di élite – per la bellezza e l'originalità dell'ambiente artistico e urbano della città e per la presenza della spiaggia del Lido, avviato a divenire una delle stazioni balneari e mondane di fama internazionale. L'economia cittadina si basò così fino alla fine della prima guerra mondiale sui traffici commerciali, sulle attività artigianali (alcune delle quali, come quelle del vetro e dei merletti, di antichissima tradizione) e sui servizi, in buona parte direttamente o indirettamente connessi con il movimento turistico in rapido sviluppo. Con la fine del secondo conflitto mondiale ebbe inizio la costruzione del porto commerciale e della zona industriale di Marghera, che contribuì efficacemente a trasformare la struttura economica e sociale della città, assegnando a ciascuna delle sue componenti una precisa funzione economica: l'attività peschereccia veniva trasferita a Malamocco e a Burano, dove riprendeva vigore l'artigianato dei merletti; l'industria vetraria a Murano; la vita mondana e balneare al Lido; i commerci e la grande industria moderna negli insediamenti di Mestre especialmente di Marghera. Il nucleo storico finiva così con l'assumere caratteristiche sempre più (e spesso quasi esclusivamente) residenziali, con una popolazione dedita in prevalenza alle attività artigianali e ai servizi. Se si escludono le attività artigianali o a livello di piccola industria presenti nei vecchi quartieri della città lagunare e nelle isole di Murano (vetri) e Burano (merletti), le industrie d'impronta moderna e di considerevoli dimensioni sono tutte ormai ubicate sulla terraferma, specialmente nell'area di Marghera, dove una fitta rete di canali consente di sfruttare, senza eccessivi gravami di trasporto, le materie prime, anche quelle più povere come il carbone, la bauxite e le fosforiti. Le banchine hanno uno sviluppo di ca. 32 km e i binari, che le collegano ai numerosi stabilimenti industriali e alla rete ferroviaria nazionale, raggiungono i 140 km, le strade i 40 km e i canali industriali (compreso il raccordo con il Naviglio di Brenta ) i 20 km. Il movimento complessivo delle merci è intenso: nel 1997, ad esempio, le navi arrivate e partite (tra navigazione internazionale e di cabotaggio) furono ca. 4500, sbarcando e imbarcando ca. 24 milioni di t di merci e ca. 650.000 passeggeri. L'industria nell'area di Marghera è particolarmente sviluppata nei settori chimico, petrolchimico e metallurgico, seguiti a notevole distanza da quelli meccanico, dei materiali da costruzione, della ceramica, del vetro e dell'abbigliamento. Il consistente processo di industrializzazione dell'area comunale ha avuto tuttavia conseguenze negative sia sull'equilibrio ecologico della laguna di Venezia, sia sul patrimonio artistico della città, a causa del diffuso inquinamento marino e atmosferico. Un altro grave problema che Venezia si trova ad affrontare è quello dell'acqua alta: tale fenomeno è dovuto in parte anche alla subsidenza, cioè al progressivo sprofondamento del fondo lagunare provocato sia da bradisismi naturali, sia dalla costante emunzione di acqua dal sottosuolo mediante pozzi artesiani (poi chiusi). Intensissimo è il movimento turistico, sia al Lido (specie d'estate) sia principalmente nel nucleo storico (tutto l'anno). L'attrezzatura ricettiva non è adeguata nei mesi di punta alle esigenze della numerosissima clientela, che giunge a Venezia prevalentemente per strada e ferrovia; relativamente numerosi sono anche i passeggeri all'aeroporto di Venezia-Tessera (oltre tre milioni all'anno), che è stato costruito in terraferma proprio al margine della laguna.
Storia
L'intenso popolamento e la progressiva organizzazione e strutturazione cittadina delle isole lagunari risalgono ai Longobardi (568), che provocarono un esodo massiccio da Aquileia, Padova e altre città verso Malamocco, Rialto, Grado, sotto la protezione dei Bizantini. Un magistrato bizantino governò le isole con residenza prima a Eraclea, poi a Malamocco: solo nel 726 appare un doge indigeno, Orso Ipato; ma sia questi sia i suoi successori rimasero alle strette dipendenze dell'esarca fino al 751. Venezia acquistò allora una larga autonomia, ma non cessò di riconoscere la sovranità di Bisanzio e di coltivarne un vantaggioso protettorato per i viaggi di mare. Nel confronto fra l'impero carolingio e quello bizantino, Venezia si schierò con quest'ultimo, resistette agli attacchi franchi (803 e 810) e alla composizione del conflitto e alla definizione dei confini tra i due imperi restò a quello d'Oriente (814). In questo periodo il centro politico di Venezia si spostò a Rialto e qui, dopo la traslazione delle reliquie di San Marco e la costruzione della basilica, ebbe anche il suo centro religioso. Nei sec. IX e X, con la crescita della città, il legame con Bisanzio si trasformò da sudditanza in alleanza. All'interno, i dogi avevano poteri quasi dittatoriali, senza per altro riuscire a trasformare in ereditaria la loro dignità elettiva e vitalizia. All'estero, i veneziani difendevano con successo, insieme ai Bizantini, la libertà della navigazione nell'Adriatico contro pirati slavi e saraceni. Tra la fine del sec. X e i primi dell'XI, la città ottenne larghi privilegi commerciali nell'impero bizantino (992) in cambio di un'alleanza militare, assicurandosi protezione e garanzie da Ottone III di Sassonia per il transito dei suoi mercanti in Italia e in Germania e imponendo, sotto la specie della difesa, il suo controllo sulla Dalmazia (999). Formalmente delegato dall'imperatore bizantino, in realtà il doge agiva ormai come il capo di uno stato indipendente. Nella difesa comune contro i Normanni l'imperatore Alessio I Comneno accordò larghissimi privilegi al commercio veneziano e, in cambio, i Veneziani salvarono dai Normanni il caposaldo bizantino di Durazzo (1085). Neutrale nella lotta delle investiture, Venezia prese invece parte alla prima crociata per non essere sopravanzata da pisani e genovesi (1100) e occupò Haifa. Ma la politica ambigua degli imperatori bizantini nei confronti dei veneziani, temuti ora come troppo potenti e perciò frenati favorendone i rivali pisani, portò a un'aperta rottura (1118). Venezia s'impegnò allora in imprese militari contro Bisanzio e, in Siria, contro i turchi, che le fruttarono la conferma e l'estensione dei privilegi del 1082 nell'impero (1126) e nuovi privilegi e colonie nel regno di Gerusalemme (Ashqelon, Tiro). Con le crociate aveva inizio il grande impero veneziano del Levante: basi in area bizantina (a Costantinopoli, Tessalonica, Corinto, isole Ionie, Creta, Cipro, ecc.) e gerosolimitana (Tiro, Haifa, Sidone, Ashqelon, Acri, ecc.), nonché ad Alessandria. La gestione di questa vastissima rete d'interessi essenzialmente commerciali era tuttavia ancora affidata all'iniziativa dei privati: lo stato si limitava a proteggerli. All'interno emergeva dall'Assemblea popolare un sistema di Consigli destinati a integrare il governo dogale. Nella seconda metà del sec. XII Venezia dovette salvaguardare la sua indipendenza dall'imperialismo tedesco: favorì allora i Comuni contro il Barbarossa, ma vide compromessa la sua egemonia sull'alto Adriatico a favore dei Bizantini. I veneziani furono perseguitati nell'impero bizantino (1071), mentre slavi e ungheresi scrollavano le posizioni veneziane sulla costa adriatica orientale e i commercianti genovesi e pisani prendevano il sopravvento sui mercati del Levante. La pace di Venezia tra il Barbarossa e papa Alessandro III (1177) attenuò molto la crisi. All'interno del governo cittadino avvenivano frattanto importanti mutamenti costituzionali: l'elezione del doge fu tolta al popolo e riservata a soli 40 elettori, scelti da un'apposita commissione; al popolo rimase il diritto di ratificarla (1172). Il doge fu affiancato da sei consiglieri (uno per ciascun sestiere della città), costituendo un consiglio ristretto (Minor Consiglio) e, con l'aggiunta di altri tre savi, la Signoria. Tutte le iniziative di questi organi supremi dovevano però essere sottoposte all'approvazione del Maggior Consiglio, emanazione dell'Assemblea popolare (soppressa poi nel 1423), organo del potere legislativo (e, col volgere del tempo, di altri poteri), nonché di altri Consigli sorti in tempi diversi, come il Senato, sviluppatosi dal primitivo gruppo di consiglieri pregati dal doge di collaborare con lui (i Pregadi) e destinato a governare infine la politica estera, la difesa e l'economia: a tenere cioè le leve di comando della politica veneziana. Con la quarta crociata Venezia poté raggiungere con i suoi traffici il Mar Nero; dopo la conquista di Bisanzio, a Venezia. toccarono le coste e le isole Ionie, il Peloponneso, le Cicladi, stabilimenti sugli Stretti, Creta e un ampio quartiere a Costantinopoli. Con il crollo dell'impero latino d'Occidente, Venezia perdette le principali posizioni e i privilegi raggiunti (tra cui l'accesso al Mar Nero), che passarono in gran parte a Genova. Ne tentò il ricupero facendo guerra a Genova e normalizzando i rapporti col restaurato impero bizantino. Nel sec. XIII, al culmine della sua fortuna, Venezia diede un'organizzazione razionale al suo impero commerciale, accentrandone il governo e inviando nelle colonie alcuni rettori (baili), responsabili di fronte al doge. A fine secolo, Venezia stessa trasformava il suo regime in una forma vicina all'oligarchia, limitando l'accesso al Maggior Consiglio alle famiglie che già ne avevano fatto parte (Serrata del Maggior Consiglio, 1297). Per prevenire reazioni da parte popolare o da parte dogale fu istituito il Consiglio dei Dieci (1310), magistratura investita della difesa del nuovo regime. Nonostante le alterne vicende della seconda metà del sec. XIII e della prima metà del XIV, l'impero veneziano nel Levante conservava un valore commerciale immenso, coi suoi vertici in Crimea (a Tana), in Cilicia (a Laiazzo), in Egitto (ad Alessandria), coi suoi scali a Costantinopoli e nelle isole del Mediterraneo orientale. A organizzare la flotta era ormai lo stato, che aggiudicava ai privati, caso per caso, il naviglio occorrente. Verso la metà del sec. XIV, e in concomitanza coi primi progressi dei turchi Ottomani, Venezia, sentendosi minacciata sulla terraferma, intraprese una politica italiana per garantirsi contro gli Scaligeri di Verona con l'acquisto di Treviso (1337-38). Poi, vinta la guerra di Chioggia (1381) contro i genovesi e scongiurata l'impetuosa avanzata di Milano, tolse all'ultimo dei Carraresi il possesso di Padova, Vicenza e Verona (1405) e conquistò il Friuli. Frattanto riprese il possesso della Dalmazia. La politica di terraferma costrinse Venezia a impegnarsi in una serie di guerre, specialmente contro Milano. Nonostante alterne fortune, tra il 1425 e il 1454 la Repubblica riuscì ad annettere Brescia, Bergamo e i rispettivi territori (1454) diventando uno dei cinque maggiori stati italiani. I domini italiani s'adattarono senza gravi turbamenti al governo veneziano, uno dei più tolleranti e illuminati d'Europa. Mentre era impegnata nella sua politica italiana, Venezia perdeva terreno in Oriente. I turchi le tolsero anzitutto Salonicco (1430) e, dopo la caduta di Costantinopoli, tra Maometto II e la Repubblica si giunse a un trattato di pace (1454), che si rivelò nei fatti una semplice tregua: il sultano riattaccò ben presto le posizioni veneziane dal Peloponneso alla Crimea, spingendo l'offensiva fino al Friuli. Contro le molte posizioni perdute, Venezia venne in possesso di Cipro. Alla fine del Medioevo, Venezia era la città cosmopolita più importante e ammirata d'Europa. La sua posizione però doveva cambiare con la scoperta dell'America: chiusa nel bacino del Mediterraneo, Venezia ne avrebbe risentito le irreversibili conseguenze. L'aggressiva spregiudicatezza della sua politica e la potenza economica e militare tuttavia erano ancora tali da far sospettare che mirasse al predominio su tutta l'Italia: nel giro di pochi anni Venezia partecipò alla lega contro Carlo VIII (1495) e fu presente alla battaglia di Fornovo; approfittò delle difficoltà degli Aragonesi e s'impadronì di alcuni porti pugliesi affacciandosi sullo Ionio; intervenne nella guerra tra Firenze e Pisa; per ottenere Cremona e la Gera d'Adda si alleò con la Francia e contribuì alla sconfitta dei Visconti; dopo la caduta del Valentino occupò rapidamente Cervia e Faenza (1504) e tolse agli Asburgo Gorizia e Trieste (1507-08). Le potenze europee e italiane allora si coalizzarono per ridurla ai soli territori della laguna (Lega di Cambrai, 1508); Venezia fu sul punto di soccombere. Per sua fortuna, l'accordo tra i collegati venne meno ed essa si liberò della Spagna, del papa e della Francia restituendo le terre occupate dopo il 1494, e poté contrattaccare l'imperatore; con la partecipazione alla Lega Santa rientrò poi in possesso di molti dei territori perduti; migliorò ancora la sua condizione attraverso una nuova alleanza con Luigi XII (Blois, 1513); con la Pace di Noyon (1516), infine, riebbe anche le ultime città che stavano in mano nemica. Grazie all'abilità diplomatica e all'energia militare la gravissima crisi parve superata, ma in realtà la politica della Repubblica fu da allora costretta a una condotta più cauta ed essenzialmente conservatrice. Il ritorno offensivo dei turchi le inflisse la perdita di gran parte delle isole egee, Malvasia e Nauplia (1537-39), e alla fine di Cipro. Anche la vittoria di Lepanto (1571) non le recò tangibili vantaggi: riuscì solo a salvare i suoi privilegi commerciali nell'Impero ottomano . E se di fronte ai tentativi d'ingerenza pontificia la Repubblica seppe ancora trovare atteggiamenti di risoluta indipendenza, i momenti della grande politica erano però finiti. Stretta tra il ducato spagnolo di Milano e l'incombente minaccia degli Asburgo e dei turchi, Venezia optò per un politica di difesa: nel 1617 riuscì a sgominare gli Uscocchi che infestavano l'Adriatico; nel 1618 sventò in extremis la congiura organizzata dal Bedmar per abbattere la signoria con un colpo di mano; dalla guerra in Valtellina uscì praticamente sconfitta (Trattato di Monzón, 1626). Nel Mediterraneo ottenne qualche brillante successo (Paro, 1651; Dardanelli, 1656), ma alla fine dovette cedere anche Creta, e il suo vittorioso ritorno nel Peloponneso (1687) fu vanificato dalla Pace di Passarowitz (1718). Ridotta alla Dalmazia, alle isole Ionie e alle Bocche di Cattaro, impotente contro la concorrenza dei porti atlantici, francesi e persino ispano-italiani, la Repubblica si ridusse a potenza di secondo piano, avviata a una progressiva decadenza a causa della tendenza a investire i capitali nella proprietà terriera. Nemmeno l'illuminismo riuscì a cambiare in qualche modo l'atmosfera stagnante della città: circoli responsabili del governo, ultraconservatori, rifiutarono ogni suggerimento di riforme. Gravata da un debito pubblico di quasi cento milioni di ducati verso il 1790, la Repubblica ebbe ancora uno sprazzo di effimera gloria con le imprese marinare di Giacomo Nani (1766-68) e Angelo Emo (1784-92) contro le reggenze barbaresche (Tunisi, Tripoli e Algeri), ma poi cadde quasi senza avvedersene sotto i colpi dell'offensiva napoleonica. Costretta a lasciare il passo sul suo territorio alle truppe francesi e austriache durante la prima campagna d'Italia, con la rivolta popolare di Verona (1797), offrì il pretesto al Bonaparte per porre termine alla sua millenaria esistenza. Il 12 maggio 1797, su richiesta del Bonaparte, il Maggior Consiglio dichiarò dissolto lo stato e il doge Ludovico Manin lasciò il posto a una municipalità di giacobini filofrancesi; poco dopo, in base al Trattato di Campoformido, Venezia passò all'Austria con tutto il suo territorio italiano fino all'Adige, tra l'indifferenza delle potenze europee. Annessa al Regno d'Italia insieme all'Istria e alla Dalmazia (Pace di Presburgo, 1805), ritornò agli Asburgo nel 1814. Agli svantaggi della dominazione straniera si aggiunse un regime fiscale e doganale particolarmente esoso: alla notizia dell'insurrezione di Vienna Venezia insorse il 17 marzo 1848, costringendo la guarnigione austriaca (generale Zichy) ad abbandonare la città (sera del 22). Costituitosi quindi un governo provvisorio presieduto da D. Manin (23 marzo), dapprima venne proclamata la Repubblica di San Marco e successivamente (4 luglio) la formale annessione agli stati sardi. Dopo la battaglia di Custoza, il popolo insorse di nuovo (11 agosto 1848), costringendo i commissari piemontesi ad abbandonare il campo e nominando Manin presidente di un nuovo governo provvisorio. Gli austriaci assediarono la città, e invano le milizie veneziane tentarono numerose sortite. Con l'armistizio di Novara gli austriaci poterono aumentare le loro forze all'assalto della città. Dopo una serie di scontri preliminari, il 4 maggio fu attaccato il forte di Marghera, che dovette essere abbandonato dopo una resistenza di ben ventidue giorni. Gli assediati fecero saltare allora il lungo ponte ferroviario che univa la città alla terraferma, e la resistenza continuò nonostante la fame, il colera e il cannoneggiamento nemico. La resa venne solo il 24 agosto e, con la sospensione immediata delle operazioni, venne concessa l'amnistia per tutti i soldati e sottufficiali combattenti; i militari, gli ufficiali e i quaranta patrioti più in vista (tra cui Manin) dovettero lasciare Venezia. Ritornata quindi sotto il dominio austriaco, solo dopo la terza guerra d'Indipendenza, in base al Trattato di Vienna (3 ottobre 1866) e al plebiscito del successivo 22 ottobre, passò all'Italia.
Arte
Centro della vita cittadina e massimo complesso urbanistico e architettonico di Venezia è piazza San Marco, che trae nome dalla basilica sorta nel sec. IX e dedicata al santo omonimo. La basilica, che costituisce il più alto esempio d'arte veneto-bizantina, in cui si fondono anche stili successivi (romanico, gotico e rinascimentale), fu ricostruita nel sec. XI sul modello della chiesa dei SS. Apostoli di Costantinopoli (ora distrutta). A croce greca, con cinque cupole, è preceduta da un atrio che circonda tutta la parte occidentale; nel sec. XIII le cupole vennero arricchite di splendenti decorazioni. La facciata, dal coronamento gotico ricco di pinnacoli e cuspidi (sec. XV), è spartita orizzontalmente da una terrazza con balconata; nella parte inferiore sono cinque profonde arcate, in fondo alle quali si aprono altrettanti portali, con notevoli rilievi scultorei di gusto bizantino; sulla terrazza sono collocati i celebri quattro cavalli in rame dorato portati da Costantinopoli, ritenuti opera ellenistica (sec. III a. C.). Anche i fianchi della basilica sono ornati da preziosi rilievi e sculture, tra cui, sul lato meridionale, il gruppo in porfido dei Tetrarchi (sec. IV). L'atrio, diviso in campate da archi acuti, è sormontato da cupolette rivestite da splendenti mosaici di gusto veneto-bizantino (1220-50) con storie del Vecchio Testamento. L'interno è a croce greca, con cinque cupole poggianti su grandi arconi a botte; ciascun braccio è diviso in tre navate da colonnati che sostengono i matronei. Le cupole, la parte alta delle pareti, i sottarchi delle navate sono interamente ricoperti di mosaici, in larga parte dei sec. XII-XIII (con rifacimenti posteriori), che costituiscono una significativa sintesi dell'iconografia bizantina. Il presbiterio, rialzato, è sormontato dall'altare, ornato da un ricco ciborio sorretto da colonne istoriate (forse del sec. XIII). Dietro l'altare è la celebre pala d'oro, splendido esempio di oreficeria veneto-bizantina (sec. X-XIV), formata da riquadri a lamina d'oro ornati di smalti e montati in una finissima cornice. Nell'abside si apre la porta bronzea della sacrestia, di I. Sansovino. Il Tesoro della basilica è ricco soprattutto di oggetti di oreficeria bizantina: pissidi, caraffe, calici, patene (dal sec. X al XIV) e rilegature decorate con rilievi, smalti e nielli; tra i pezzi più importanti sono la corona di Leone VI (sec. X) e il paliotto di San Marco, in argento dorato e lavorato a sbalzo. Di fronte alla chiesa si leva il caratteristico campanile, alto 98 metri, ricostruito dopo il crollo del 1902. Alla base si appoggia la loggetta del Sansovino, elegantemente decorata (1537). A fianco della basilica, sulla piazzetta, s'innalza lo splendido Palazzo Ducale, ricostruito nei sec. XIV-XV da maestri veneziani, toscani e lombardi (Pier Paolo Dalle Masegne, Bartolomeo e Giovanni Bon, ecc.) sul luogo di un precedente edificio romanico. Capolavoro del gotico veneziano, si caratterizza per l'audace struttura, porticata in basso e compatta nella parte superiore, e per la levità delle superfici rivestite di marmo bianco e rosa. All'interno, cui si accede per la Porta della Carta (1443), è l'ampio cortile gotico-rinascimentale, ornato dalla monumentale Scala dei giganti, di A. Rizzo. Nell'interno del palazzo particolarmente interessanti la Scala d'oro, con stucchi di A. Vittoria (1555), e l'appartamento dogale, dove si conservano vari dipinti, di G. Bellini, H. Bosch, G. B. Tiepolo; tra le numerose sale che conservano capolavori della scuola veneziana, celebre è quella del Maggior Consiglio, dal soffitto decorato con 35 pannelli del Veronese, e ornata da numerosi quadri, tra cui il grande Paradiso del Tintoretto; da ricordare infine le statue di Adamo ed Eva, di A. Rizzo (1470), fra i capolavori della scultura veneziana. Altri monumentali edifici sono la Torre dell'Orologio, di M. Coducci (1496), le Procuratie Vecchie, di I. Sansovino, e le Procuratie Nuove, di V. Scamozzi e B. Longhena; sulla piazzetta, la splendida Libreria Marciana, di I. Sansovino, che conserva all'interno dipinti del sec. XVI e codici miniati. A parte l'eccezionale complesso marciano, esempi del periodo gotico sono la chiesa domenicana dei SS. Giovanni e Paolo (S. Zanipolo), costruita fra il 1246 e il 1430; l'interno a tre navate, vasto e solenne, conserva numerose tombe e opere d'arte, tra cui il bellissimo monumento a Pietro Mocenigo, di P. Lombardo (1476) e il polittico di S. Vincenzo Ferreri di G. Bellini. Nella cinquecentesca Cappella del Rosario, notevoli tele del Veronese. Altra grande chiesa gotica è la francescana S. Maria Gloriosa dei Frari, costruita fra il 1338 e il 1443; anch'essa conserva monumenti ai dogi F. Foscari, di A. e P. Bregno, e N. Tron, di A. Rizzo; un trittico con Madonna e Santi di G. Bellini (1488); e soprattutto due celebri tele di Tiziano, l'Assunta (1518) e la Madonna di Ca' Pesaro (1526). Numerose altre costruzioni risalgono al sec. XIV, soprattutto edifici civili lungo il Canal Grande e nelle zone di campo S. Maria Mater Domini, campo S. Polo, campo S. Zaccaria. Fra le chiese, S. Maria Mater Domini, dalla facciata rinascimentale, conserva opere di Tintoretto e V. Catena. Splendido è il gotico veneziano del sec. XV, al quale appartengono alcuni dei massimi capolavori della fase “fiorita” di questo stile, quali l'armoniosa Ca' Foscari e la famosa Ca' d'Oro, opera di B. Bon e M. Raverti (1421-30), al cui interno ha sede la Galleria Franchetti, interessante collezione di dipinti, marmi, mobili, bronzi e altri oggetti artistici dei sec. XV-XVII. Ai sec. XIV-XV risalgono le gotiche chiese di S. Stefano (all'interno tele del Tintoretto) e dei Carmini; tardogotiche sono invece la caratteristica Madonna dell'Orto (dipinti di Cima da Conegliano, G. Bellini, tele del Tintoretto), S. Giobbe e S. Giovanni in Bragora, dalla tipica facciata. Le prime costruzioni di gusto rinascimentale a Venezia datano alla seconda metà del sec. XV e presentano una commistione fra i motivi del tardogotico veneziano e lo stile rinascimentale lombardo. Capolavoro di P. e T. Lombardo è la chiesa di S. Maria dei Miracoli (1481-89), di elegante e raffinata struttura e decorazione. Agli stessi architetti si devono la Scuola di S. Giovanni Evangelista (1481) e l'elegante Scuola Grande di S. Marco (1487-90), oggi ospedale civile. In ambito analogo si collocano le numerose opere di M. Coducci, fra le quali l'elegante facciata di S. Zaccaria (1483-1500), animata da risalti a nicchie e colonnine, con un perfetto equilibrio tra pieni e vuoti; S. Maria Formosa (iniziata nel 1492), con interno ricco di opere d'arte; il palazzo Corner-Spinelli sul Canal Grande; S. Giovanni Crisostomo (1497-1504), a croce greca; il palazzo Vendramin-Calergi, completato dai Lombardo. Caratteristiche di questo periodo sono le Scuole delle confraternite, ornate da dipinti dei maggiori maestri attivi a Venezia: tra queste la Scuola di S. Marco, decorata da G. Bellini, e quella di S. Giorgio degli Schiavoni, decorata da V. Carpaccio. Celebre esempio di scultura rinascimentale è il monumento equestre a Bartolomeo Colleoni del Verrocchio, in campo S. Zanipolo. Nel sec. XVI, fra i più fecondi dell'arte veneziana, numerose sorsero le chiese e le costruzioni civili. A I. Sansovino si devono palazzo Corner, dalla grandiosa e classica architettura, e la grande chiesa di S. Francesco della Vigna. Alla prima metà del secolo datano anche le opere dello Scarpagnino, tra cui la ricostruzione della chiesa di S. Giovanni Elemosinario, e la Scuola di S. Rocco; quest'ultima conserva una notevolissima serie di tele del Tintoretto, fra cui di massimo interesse le Scene della Passione; inoltre opere di Tiziano e Giorgione. Di più elevato livello architettonico l'opera di M. Sanmicheli , autore, tra l'altro, del palazzo Grimani, di possente struttura. Nella seconda metà del secolo è da ricordare l'attività del Palladio, che lasciò a Venezia due capolavori: la chiesa di S. Giorgio, di nobilissime forme sia in facciata sia nel luminoso interno, e il Redentore, di struttura elegante e maestosa. Fra gli altri monumenti del sec. XVI vanno ricordati infine la chiesa di S. Sebastiano, ornata da splendidi dipinti del Veronese; S. Trovaso (opere del Tintoretto); S. Salvatore, con facciata barocca; e i due celebri ponti, di Rialto (1592) e dei Sospiri (1600). Il sec. XVII è caratterizzato soprattutto dall'attività di B. Longhena, il cui capolavoro è la chiesa di S. Maria della Salute, a pianta ottagonale, sormontata da una grandiosa cupola. A Longhena si devono anche l'imponente palazzo Rezzonico, oggi Museo del Settecento Veneziano (ricchissima raccolta di opere d'artigianato e d'arte, tra cui tele di F. Guardi e P. Longhi) e il fastoso palazzo Pesaro, sede della Galleria d'Arte Moderna e del Museo Orientale. Altri edifici secenteschi sono la chiesa di S. Maria Zobenigo all'interno e quella di S. Cassiano, entrambe con opere del Tintoretto. Fra le meno significative le architetture del sec. XVIII, tra cui spiccano la Scuola dei Carmini (tele di G. B. Tiepolo) e le chiese dei Gesuiti (di G. Massari, all'interno Il martirio di San Lorenzo, capolavoro di Tiziano), di S. Vitale e di S. Rocco (all'interno tele del Tintoretto). Una delle più eleganti dimore private del Settecento è il palazzo Labia, celebre per gli affreschi del Tiepolo. Fra le costruzioni neoclassiche, interessanti il teatro La Fenice (1790), purtroppo andato quasi completamente distrutto nell’incendio del 1996, e la chiesa di S. Silvestro (sec. XIX). La città di Venezia, rimasta praticamente inalterata dal sec. XIX nel suo nucleo storico, si è espansa soprattutto sulla terraferma, con anonimi quartieri moderni; tra i maggiori interventi urbanistici vanno ricordati la sistemazione del Lido e quella della Biennale Internazionale d'Arte. Alla fine degli anni Settanta del XX secolo prevalse il proposito del riuso e della riorganizzazione del vecchio tessuto urbano: così alla Giudecca G. Valle realizzò un nuovo insediamento di edilizia economico-popolare (1980-86), e V. Gregotti creò nell'area di Canaregio un quartiere residenziale (1984). Per lo sviluppo della pittura veneziana, si veda alla voce Veneto, Scuola veneta.
Artigianato: la ceramica
La città fu un importante centro di produzione ceramica, iniziata con la lavorazione “a sgraffio”. Nel sec. XVI le maioliche veneziane furono caratterizzate da un ornato in turchino a motivi di foglie, fiori e frutti di gusto orientale su fondo azzurrino tendente al grigio. In questo campo si distinsero Maestro Lodovico, Maestro Iacopo da Pesaro e Domenico da Venezia. Nei sec. XVII-XVIII, per influsso dei “bianchi” importati da Faenza, Lodi e Savona, si diffuse la moda dei latesini, che divennero una delle maggiori espressioni artistiche di questo centro. La prima fabbrica di porcellana venne fondata a Venezia nel 1720 da Francesco Vezzi, e produsse una pasta dura decorata per lo più a motivi orientali. Una seconda fu fondata nel 1761 da Nathaniel F. Hewelcke, proveniente da Meissen, ma la più famosa è quella fondata nel 1764 da G. Cozzi, che produsse porcellane di pasta dura ibrida, dalle forme rococò molto mosse e dalla ricca tavolozza dominata da particolari tonalità di rosso ferro, verde smeraldo e violetto, con motivi di fiori, insetti, cineserie, monogrammi. La fabbrica produsse anche biscuit modellati con prezioso gusto miniaturistico.
Artigianato: il merletto
Il merletto ad ago fu una creazione veneziana maturata nel corso del Cinquecento col passaggio dal reticello al “punto in aria”, cioè a un tipo di merletto che non appoggia su alcuna impalcatura di base; questo aprì poi la via a trine sempre più perfette e complicate, di alto valore d'arte. La trina di Venezia divenne quasi un'industria nel Seicento, con la creazione di manifatture e laboratori; i modelli furono gelosamente custoditi. Dalla trina di Venezia si giunse nel sec. XVII al sontuoso merletto eseguito col “punto tagliato a fogliame”, più noto come gros point de Venice, con effetti di rilievo ottenuti da un doppio e triplice lavoro. Nel Settecento venne prodotta la trina detta “a roselline”, col fondo animato da nodini e sbarrette. Altra trina è quella di Burano, col fondo a maglie tonde dal caratteristico effetto ondeggiante.
Musei
Le Gallerie dell'Accademia costituiscono una splendida raccolta di pittura veneta dal sec. XIV al XVIII. Fra le opere più importanti sono varie Madonne di G. Bellini, il ciclo della Leggenda di S. Orsola di V. Carpaccio, dipinti del Mantegna, di Piero della Francesca, Giorgione (La Tempesta), Tiziano, Veronese, Tintoretto (Miracoli di S. Marco); inoltre di Paolo Veneziano, Iacobello del Fiore, Cima da Conegliano, C. Tura, P. Bordone, Palma il Vecchio, L. Lotto, G. B. Tiepolo, G. B. Piazzetta, R. Carriera, ecc. Assai significativa anche la pinacoteca della Fondazione Querini-Stampalia, con opere di Catarino, G. Bellini, Palma il Vecchio, A. Schiavone, G. B. Tiepolo, P. Longhi, A. Longhi, ecc. Il Museo Correr, che ha sede nell'ala napoleonica delle Procuratie, conserva notevoli opere dei Bellini, di Carpaccio, C. Tura, L. Lotto, Antonello da Messina e altri, oltre a bronzetti, mobili, ceramiche dal sec. XIV al XVIII. Il Museo Archeologico vanta notevoli sculture greche e romane e altro materiale, soprattutto di età ellenistica. Degna di nota infine la Fondazione P. Guggenheim, interessante raccolta di arte contemporanea, soprattutto delle cosiddette “avanguardie storiche” della prima metà del Novecento.
Istituti culturali
L'Archivio di Stato è uno dei maggiori d'Italia e in assoluto del mondo per l'importanza delle sue fonti storiche. Le due sezioni fondamentali sono quella degli archivi antichi dello stato (fino al 1797) e quella degli archivi moderni, dal governo democratico (1797-98) in poi. La Biblioteca Marciana è trattata al lemma marciano.
Spettacolo
Il primo spettacolo accertato è un'Annunciazione recitata davanti al doge nel 1267, ma anche prima dovevano esistere rappresentazioni sacre, esibizioni di saltimbanchi e dialoghi di buffoni; poi, verso la fine del Medioevo, celebrazioni delle solennità civili e inoltre cortei carnevaleschi, abbattimenti, regate e altre manifestazioni a metà tra spettacolo e sport. Nel sec. XV presero sviluppo anche le momarie, pantomime a sfondo comico d'origine agreste che avevano in città complesse elaborazioni spettacolari con musiche, danze, elementi allegorici e che erano affidate alle Compagnie della Calza, associazioni di nobili cui si dovettero nel Cinquecento anche i primi saggi di teatro umanistico. Nel 1508 un decreto della Signoria proibì tutte le “recite e rappresentazioni comiche o tragiche”. Di fatto però tale divieto fu inefficace e nei secoli successivi, sino alla fine della Repubblica, vi fu un'intensa fioritura di teatri e spettacoli, importanti sia dal punto di vista organizzativo sia sotto l'aspetto artistico: i comici dell'Arte e i migliori scenografi, il melodramma di C. Monteverdi, di F. Cavalli, di A. Vivaldi, di B. Galuppi, i libretti di Zeno e di P. Metastasio, le novità di C. Goldoni, C. Gozzi. Dal Teatro Vecchio di San Cassian, aperto nel 1580 ca., a La Fenice, inaugurata nel 1792, passando per i teatri dei SS. Giovanni e Paolo, di San Luca, di San Moisè, di Sant'Angelo, di San Samuele ecc., moltissime, più che in ogni altra città europea contemporanea, erano le sale in vivace e pittoresca concorrenza tra loro. L'Ottocento vide numerose prime di opere di G. Rossini e di G. Verdi a La Fenice (divenuta poi ente autonomo nel 1936), stagioni di prosa al Goldoni, compagnie dialettali al Camploy (l'ex San Samuele) e in altre sedi. Nel Novecento Venezia diventò, anche dal punto di vista teatrale, provincia. Fanno eccezione, a partire dagli anni Trenta, le manifestazioni, organizzate nell'ambito della Biennale, dei Festival internazionali del cinema (si veda per esempio la Mostra internazionale d'arte cinematografica), del teatro e della musica contemporanea (una delle più importanti rassegne della produzione musicale contemporanea, che ha ospitato in prima esecuzione alcune delle più significative composizioni del sec. XX, tra cui l'opera La carriera di un libertino e il Canticum sacrum in honorem Sancti Marci nominis di I. Stravinskij). Uno dei punti di forza della vita musicale della città è anche il Conservatorio Benedetto Marcello (inaugurato nel 1877). Notevole attività sul piano delle ricerche musicologiche, con particolare riguardo per gli studi sulla storia del teatro musicale, svolge l'Istituto per le lettere, la musica, il teatro veneto della Fondazione G. Cini, sede di congressi e di corsi internazionali di alta cultura. Da ricordare anche le attività del Centro delle arti e del costume di palazzo Grassi. Dal 1974 i vari festival hanno iniziato un'opera di riscoperta e di riutilizzazione di sedi teatrabili nei più diversi quartieri cittadini, alla ricerca di un pubblico che comprenda strati sempre più vasti della popolazione.